Fritz Lang non amava Metropolis, che molti, invece, considerano il suo capolavoro, e che è, sicuramente, il film che ha fondato la nostra concezione della Fantascienza nel Cinema. Nelle sue interviste il regista ha sempre affermato di detestare questa favola, che giudicava “sciocca”. Forse ancora in polemica, alla lontana, con la donna che aveva scritto il soggetto e la sceneggiatura con lui, Thea von Harbou, all’epoca, sua moglie. Le attribuiva tutte le debolezze e gli infantilismi della trama. Trovava ridicolo il messaggio finale di Metropolis: che l’Amore avrebbe potuto mettere d’accordo Capitale e Lavoro operaio, seppellendo la lotta di classe per sempre. Certo, – secondo il film – prima si doveva passare per una grande catastrofe: ma per quella non era necessario attendere la vendetta della natura contro le macchine, o delle macchine sull’uomo: la catastrofe nel 1927 i tedeschi l’avevano in casa – e coincideva con l’onda barbara e montante del nazismo.
Nel 1933, quando Goebbels, macabro ministro della propaganda e acceso fan dei Nibelunghi e di Metropolis, convocò Fritz Lang nel suo ufficio non tanto per proporgli, quanto per “ordinargli” di dirigere tutta l’industria e l’arte cinematografica del Terzo Reich, Lang cercò di tergiversare. Non aveva precise idee politiche, ma per lui il nazismo concordava con le vedute rapaci e farneticanti del suo Mabuse, il criminale “superuomo” che voleva conquistare il mondo con ogni mezzo: ipnosi, plagio, ricatto, violenza, prevaricazioni. E infatti il regime avrebbe presto fatto scomparire il Testamento del dottor Mabuse, il suo film appena terminato. Tuttavia, Hitler amava le opere “monumentali” del regista.
Lang provò a eccepire, che trovava la proposta lusinghiera, ma che si sentiva obbligato a confessare che i suoi nonni materni erano ebrei, e ebrea “di razza” era pure, ovviamente, sua madre, anche se poi era stata battezzata col rito cattolico. Al che Goebbels, con ostentata e melliflua cortesia, gli ribatté: “Signor Lang, siamo noi a decidere chi è ariano e chi no”.
Raccontando questo aneddoto da brividi a William Friedkin, il regista specificò che capì subito che per lui era meglio scappare subito dalla Germania, e (anche se impossibilitato a ritirare i suoi risparmi dalle banche, ormai chiuse), partì di corsa poche ore dopo per Parigi, da solo, e con una piccola valigia. Lasciò tutto alle spalle e non tornò più, se non, saltuariamente, nel dopoguerra. Mentre Thea – la “Signora von Harbou”, come chiamava con disprezzo la moglie, nella sua bellissima intervista a Peter Bogdanovic –, scelse di rimanere in Germania, e diventò una fanatica nazionalsocialista.
In Metropolis, il depositario delle conoscenze tecnologiche più avveniristiche è un Mago: un residuo, come mentalità, del medioevo. A quel tempo, 1927, Fritz Lang era estremamente interessato alla magia. Il suo stregone Rotwang è un nuovo Rabbi Loew, un facitore di Golem, che conosce il segreto della trasformazione degli uomini in macchine, e viceversa, delle macchine in uomini e donne.
Tutto ciò che c’è di abbagliante e indimenticabile in questa favola moderna, ruota intorno alla figura del Robot-Femmina. Creatura metallica infernale e seducente: si resta incantati, ipnotizzati, dalle sue labbra socchiuse, dal bargiglio rigido, egittoide, che gli scende dalla gola, dal suo sguardo spalancato e esterrefatto, senza palpebre, e dalla sua baluginante nudità di latta. Per saggiarne il fascino sempre attuale, vogliamo riproporre questa immagine in due splendide sequenze, prese dal film, e ricolorate in tempi moderni.