L’Altare con la statua della Dea Vittoria fu eretto a Roma nella rinnovata Cura Julia il 28 agosto del 29 a. C., a perenne ricordo del trionfo riportato da Ottaviano su Marco Antonio e la regina Cleopatra, nella battaglia di Azio. Di fronte a quell’altare i Senatori romani prestavano giuramento e, dopo aver sacrificato, prendevano possesso della loro carica. Nel 218 il debosciato imperatore Eliogabalo pretese che all’immagine della Dea fosse associata un’effigie propria in abito sacerdotale, di modo che i membri del Senato sacrificassero anche a lui, vivente, come fosse un Dio.
Non fu certo il primo, di quei monarchi assoluti, che imposero al popolo di Roma, alla casta dei sacerdoti, ai patrizi più eminenti, di adorarli come Esseri Divini. Anche i migliori di loro soggiacquero a questa vanità. Secondo lo storico Svetonio, Vespasiano, al primo furioso assalto della malattia che lo avrebbe ucciso, pare abbia esclamato: “Ahimé! Credo che sto per diventare un Dio!”. Marco Aurelio, vedovo, mise in gioco tutta la sua onorabilità e la sua fondata fama di filosofo perorando la causa della deificazione di sua moglie, la viziosissima Faustina. “Il Senato ossequioso, a sua pressante richiesta, la dichiarò Dèa”, ricorda Gibbon: quindi, “fu rappresentata nei suoi templi con gli attributi di Giunone, di Venere e di Cerere”.
Ci fu una cortigiana famosa, e se ne sdegna Tertulliano, che fu divinizzata dai Romani, e finì venerata nei Templi, accanto a Giunone, Cerere e Diana. Era Acca Larenzia, detta “Larentina, una prostituta pubblica”. Si dice che fu lei la “Lupa” (sinonimo di meretrice) che allattò Romolo e Remo. Narra, invece, Plutarco, che Larenzia passò la notte con Ercole, già defunto e abitante dell’Olimpo, e per questo guadagnò la stima e il favore popolare. Un sacrestano del Tempio dedicato al Semidio, non sapendo come combattere la noia nelle ore di chiusura – e dando per scontato che quello avrebbe potuto ascoltarlo, perché lì abitava –, a voce alta propose al figlio di Giove una partita a dadi. Con questa posta in palio: un lauto pranzo e la compagnia di una bella etera. Dopo aver prelevato il denaro occorrente dalla cassetta degli oboli, il sacrestano tentò la sorte tirando, con una mano per sé, con l’altra per il nerboruto Eroe. Perse, e rispettò il patto, offrendo all’invisibile capriccio d’Ercole un’ interminabile orgia notturna per la quale reclutò Acca Larenzia, che si distinse, pare, per le sue abilità amatorie.
Il grande filosofo Porfirio si lamentò ci fossero Dei che “portano il membro eretto” e “commettono azioni turpi”.
Quando gli Dèi erano turpi, però, c’erano più Virtuosi sulla terra. Almeno: virtuosi più grandi, da cui tutto si poteva imparare e prendere esempio.
I- Constata Seneca che ancora ai suoi tempi “tanti Dèi tumultuano intorno a un sol uomo”. Un Olimpo Minore soprattutto s’affanna a tentarlo, a travagliarlo: è una Corte dei Miracoli composta da Divinità meschine, becere e rissaiole che nulla hanno a spartire con Venere, Marte, Mercurio.
Secondo Montaigne si sono contati fino a trentaseimila dèi pagani. La maggior parte di loro è inetta a grandi imprese e dispone di poteri limitati, localizzati. “Bisogna metterne insieme ben cinque o sei per produrre una spiga di grano”, e ce ne sono “tre per una porta, quello dell’asse, quello del cardine, quello della soglia”. Così, se si schiacciava un dito nello stipite, l’Antico sapeva sempre con chi prendersela. “Ce ne sono di vecchi e deboli, ce ne sono di mortali”; ultimi tra loro, vivacchiano quelli che “non hanno accesso al paradiso”, e fuori d’ogni Olimpo, gramissimamente vagabondano sulla Terra
Al di là dell’omaggio superstizioso dell’opportunista, che spera di lucrare il favore di qualche Divinità utile o fastidiosa, è innegabile che fu issata sugli altari una pletora di Dèi minori e minorati, insussistenti e persino banali.
Dietro ogni Pianta, comprese quelle velenose, poteva nascondersi un Pantheon.
Trascrivo da Victor Hugo – “Dioscoride credeva che ci fosse un dio nel giusquiamo, Crisippo nella cinoglossa, […] Omero nell’aglio selvatico”.
Voltaire sostenne che gli antichi Egizi adorassero le cipolle. La grande Encyclopédie, però, lo nega. Era venerato presso i romani un Dio, “Robigine”, perché – dice Tertulliano – questi incurabili pagani “persino nella ruggine videro una divinità!”.
Ma tra tutte le apoteosi incontrollate, una delle più sorprendenti è certo quella che ha elevato agli altari il Dio che sovrintende i rumorosi venti viscerali, o “rutti da basso”. Tra i romani, conferma Voltaire, “si ebbe persino il dio Peto”. Il suo autentico nome latino era Crèpitus. Flaubert introdusse il dio Peto tra le potenze demoniache che “tentano” Sant’Antonio. L’eremita è solo nel deserto, poteva forse lasciarsi andare, ma resiste. Crèpitus allora si allontana gemendo, perché un tempo anche Cesare, durante i banchetti, lo onorava e lo impersonava, mentre adesso, frigna, è “confinato fra la plebe”.
II- Riporta Leopardi nel suo bel Saggio sopra gli errori popolari degli Antichi, che “la voluttà, la libidine, il pallore, la febbre, la tempesta, ebbero tempii e incensi”, a Roma e in Grecia. La “Paura” ebbe i suoi altari, e a essa sacrificarono Teseo e Alessandro il Grande. Il saggio e severissimo Licurgo eresse una statua al “Riso”, perché fosse onorato come Dio.
Vaticano” era il Dio che presiedeva ai primi vagiti del neonato. Questo nume pagano dà ancora il nome al colle su cui sorge la cristianissima e Santissima Sede, per cui viene perennemente associato al Dio e al Papa di Roma, e nessun successore di Pietro s’è mai premurato di mutargli generalità.
Gli stessi Dèi consolidati e Olimpi erano suscettibili di metamorfosi secondo l’uzzo del momento, come racconta, a esempio, Gibbon: “Si eresse anche un tempio a Venere Calva per eternare la gloria delle donne di Aquileia, le quali avevano in quell’assedio sacrificato i loro capelli, per farne corde per le macchine da guerra”
Questa confusione, promiscuità, moltiplicazione, favoriva i Culti “a vànvera”.
Ci sono, dice Filostrato, “altri Dei, di cui gli uomini non conoscono ancora l’aspetto e il nome”. Per non irritarli o incorrere nella loro ira, ad Atene, precauzionalmente, “persino agli Dei Sconosciuti si consacrano altari”.
Di questi altari parla stranamente commosso anche Paolo, l’Apostolo: “Quello dunque che voi adorate senza conoscerlo, la mia religione ve lo annunzia”. Quasi quel culto del Dio Ignoto fosse l’ Eco rovesciata, della venerazione per il Dio a Venire, il Gesù del Vangelo.
Alcune Divinità risultavano inconoscibili non solo nella loro identità, quanto piuttosto per il loro operato. In casi ambigui, i politeisti, ignorando il Dio che presiedeva a certi fenomeni o che poteva esaudire determinati voti, si astenevano dal chiedere grazie precise, evitando così d’urtare un dio potente, per lusingarne uno incapace o estraneo alle vicende. Questa incertezza, fin dai tempi più remoti, e forse fin dagli albori del sentimento religioso fra gli antichi, deve aver favorito il culto (ne parlano Usener e Cassirer), degli “dèi momentanei”, o Dèi «istantanei»: divinità la cui presenza veniva avvertita in un momento particolare e da un solo individuo, quindi Dèi che erano sia personali che provvisori, evanescenti. A loro si rivolgevano preghiere e sacrifici non duraturi; quindi, una volta scongiurati i pericoli (oppure ottenuto l’appagamento di immediati desideri), quelli dileguandosi rientravano subito nell’oblio, e forse, nel Nulla. Erano Iddii effimeri, senza personalità, ma egualmente gelosi dei loro riti repentini e delle loro prerogative.
C’erano persino Dèi Schifiltosi che si stizzivano se venivano adorati.
La grande Enciclopedia degli Illuministi ci ricorda che i Romani hanno venerato Aius Locutius, un “Dio della Parola” o del Flatus Vocis. Era un Dio “riottoso”.
Questa divinità si fece viva durante l’invasione dei Galli. Una voce misteriosa echeggiò nel bosco di Vesta, e invitò i Romani a costruire nuove mura intorno alla città, che altrimenti sarebbe stata presa dai barbari. L’invito fu ignorato, e Roma cadde. Quando si liberarono dei Galli, i Romani si ricordarono di quella voce prodigiosa, la attribuirono a un Dio – Aius Locutius – e gli edificarono un santuario. “Nel secondo libro Della Divinazione Cicerone dice che questo dio, finché non era conosciuto di persona, parlava, ma non si era mai più fatto sentire da quando aveva un tempio e altari: il dio della parola era diventato muto da quando avevano cominciato a adorarlo”. Commenta Diderot in quella voce: così, i Romani ebbero contemporaneamente un dio “della parola”, e un “dio del silenzio”.
Resta dunque il dubbio, che non vale solo per i Numi dei Pagani, se un Dio, in genere, pretenda davvero d’essere venerato dall’Umanità, oppure se, al contrario, lo tolleri a malapena, e ne farebbe volentieri a meno.
[in copertina: Allegoria della Vittoria, di Louis Le Nain]