V- Dopo la morte di Custer, la battaglia di Little Bighorn non termina, ma continua, per due giorni ancora. Il maggiore Marcus Reno, che, per ordine del colonnello, ha attaccato da nord il grosso del villaggio, è stato presto respinto. I suoi uomini si sono dispersi e a mala pena riparati e difesi nella macchia che circonda il fiume. Tra essi c’è il tenente “Charles De Rudio”, che comanda uno degli squadroni, e avrà un ruolo importante negli sviluppi della storia.
Reno, assediato dagli indiani, non riuscì a portare alcun soccorso a Custer – impegnato nel suo attacco folle, e poi accerchiato nell’ultimo disperato tentativo di difendersi. Né aiuto, o munizioni, gli giunsero dall’altro suo ufficiale Benteen, nonostante il biglietto consegnatogli dal solerte trombettiere John Martin, ossia l’italiano Giovanni Martino.
Gli Stati Uniti, che festeggiavano in quell’anno, 1876, il primo centenario della loro Costituzione, furono sconvolti dalla notizia del massacro di Little Bighorn. Uno sciame di “selvaggi” pellerossa Sioux e Cheyenne, aveva sconfitto uno dei più progrediti eserciti dell’Occidente. Inammissibile. L’opinione pubblica, incline ad approvare il comportamento razzista e stragista di Custer, e convinta delle sue eccezionali doti militari, pretese allora un colpevole, e lo identificò in Reno. La stampa nordamericana lo descrisse come un militare inaffidabile e mise in rilievo che il maggiore, dopo la battaglia, era stato sospeso dal servizio e dallo stipendio per due anni. La causa: “comportamento disdicevole” dovuto, si disse, all’ubriachezza. Molto presto si arrivò a accusarlo apertamente di essersi comportato da codardo, abbandonando al suo destino Custer, il proprio comandante.
Per respingere quella che considerava una calunnia, e restituire l’onorabilità al suo nome infangato, appena tornò nell’esercito Marcus Reno pretese che la Corte Marziale si pronunciasse sulla sua condotta a Little Bighorn. Il processo si svolse a Chicago, nel gennaio del 1879. Dal punto di vista giuridico, finì con un nulla di fatto. Il maggiore non ottenne il riconoscimento e l’approvazione che si aspettava. Però, nonostante le pressioni esterne, la Corte non ritenne che ci fossero gli estremi per punirlo. Su questa indiretta assoluzione pesò molto la testimonianza del suo sottoposto “de Rudio”, secondo il quale, sostanzialmente, Reno aveva seguito proprio gli ordini di Custer.
VI- Questa fu l’occasione grazie alla quale l’opinione pubblica, che seguiva famelica l’evoluzione del processo, scoprì davvero un personaggio, “Charles De Rudio”, di cui s’era fino allora parlato molto poco. La stampa, insospettita dalla sua deposizione “innocentista”, promosse delle indagini ulteriori sul suo conto, e trovò nel suo passato una serie di risvolti, peripezie, e eventi documentabili, a dire poco: stupefacenti.
Non era la prima volta che la voce del tenente echeggiava in un’aula di Tribunale dove si decideva il corso della Storia. “Charles” aveva anglicizzato il proprio nome, quando aveva combattuto, con valore, nella Guerra di Secessione. In realtà, si chiamava Carlo Camillo Di Rudio: era un nobile italiano, un conte. Era nato nel 1832, e aveva ormai 47 anni: la maggior parte dei quali trascorsi come estremista, rivoluzionario, galeotto, evaso, latitante e, alla bisogna, anche terrorista. Ora faceva la sua comparsa nell’epica del West, ma aveva lasciato un segno vistoso, in precedenza, nell’epopea del Risorgimento nostro. E non solo: aveva ferito, sia pure superficialmente, l’imperatore dei Francesi, Napoleone III, tirandogli una bomba sotto la carrozza.
Il conte Carlo Camillo, bellunese, aveva cominciato la sua carriera militare, giovanissimo, nell’esercito austriaco. Ma era un patriota che sognava l’unità d’Italia; perciò, la coscrizione dura poco. Nel 1948, appena sedicenne, sposa la causa dei rivoluzionari e viene deportato a Graz. Appena liberato, raggiunge Garibaldi, Mazzini, Saffi e Armellini che stavano dando vita, nel 1849, al breve esperimento della Repubblica Romana. A Roma lo arrestano i Francesi, corsi a salvare il potere temporale del papa: Di Rudio però si libera, accoltella una guardia, fugge; ma poi viene riacciuffato. Scampa alla fucilazione, evadendo. Dopo aver partecipato alla sfortunata insurrezione di Cadore, e essere di nuovo evaso “in modo spettacolare” dal carcere di Mantova, lo ritroviamo a Londra, dove con l’amico e mazziniano pentito Felice Orsini elabora piani di attentati e di congiure. Nella capitale britannica, sposa la quindicenne inglese Eliza Booth: i due però sono talmente poveri che il conte, per sbarcare il lunario, fa il giardiniere.
Il 14 gennaio 1858, Di Rudio è a Parigi, con Felice Orsini e un altro patriota, Giovanni Andrea Pieri. Non è una gita di piacere. L’obiettivo è Napoleone “il piccolo”, come Victor Hugo chiamava il fresco imperatore, per distinguerlo dallo zio, Napoleone il Grande. È l’occasione per vendicarsi di chi ha tradito, nel ’49, la causa dell’indipendenza italiana: lo stesso Napoleone III, ex carbonaro, che ha rimesso sul trono Pio IX, dopo aver promosso la repressione sanguinosa della Repubblica Romana.
La vettura del dittatore, che sta andando al Teatro dell’Opéra per assistere a una “prima”, viene raggiunta da tre ordigni esplosivi, lanciati dai congiurati rivoluzionari. Muoiono, nell’attentato, 8 persone, i feriti sono 156: ma Napoleone “il piccolo” e la moglie Eugenia riportano solo qualche escoriazione. Carlo Camillo viene arrestato quella notte stessa. Subisce un processo, al termine del quale lui e i suoi complici sono condannati a morte. Ma poi anche per l’intervento della diplomazia britannica, viene “graziato” in extremis, solo lui, e quindi dovrà scontare “appena” un ergastolo. Orsini e Pieri vengono ghigliottinati. Ma non si può dire che il conte “si salvi”, perché l’aspetta un futuro peggiore della pena capitale: la Cayenne.
Nell’Isola del Diavolo, il peggiore serraglio e bagno penale della terra, Carlo Camillo, in quanto “parricida”, deve scontare la condanna a vita sempre in ceppi, in isolamento forzato, assillato dal disprezzo e dalla brutalità dei carcerieri. Malattie, morte, torture e soprusi decimano il piccolo popolo di detenuti che ristagna in quell’inferno sudamericano. Ma Di Rudio tiene duro, non si fa prostrare né intimorire. Progetta una fuga, che, miracolosamente, riesce. Insieme a altri galeotti, ruba una barca da pesca, e con quel fragilissimo mezzo di trasporto, guadagna e affronta l’aperto Oceano Atlantico. Il viaggio dura sei giorni, e quando i transfughi, il 15 dicembre 1859, sono ormai allo stremo, ecco apparire al loro sguardo le coste della Guyana inglese. Carlo Camillo viene accolto lì come un concittadino, e può tornare a Londra a riabbracciare la moglie e i figli.
La povertà però lo perseguita ancora. Mazzini lo aiuta a raggiungere gli Stati Uniti, dove può contare su potenti alleati e amici nel partito repubblicano. Ma la loro raccomandazione si rivela più debole del previsto. Di Rudio, nel 1864, può finalmente arruolarsi nell’esercito, però solo come soldato semplice.
Si fa valere nella Guerra Civile e poi nelle Guerre “Indiane”. Scala le gerarchie, diventa ufficiale e approda con Custer, Reno e Benteen direttamente nella Leggenda del “Little Bighorn”.
VI- Il 25 giugno del 1876, allorché ci fu l’attacco al villaggio indiano abitato da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, gli squadroni del 7° Cavalleria furono divisi per ordine di Custer, e il conte finì nelle retrovie perdendo quasi subito i contatti col grosso della formazione. Restò asserragliato per due giorni tra gli arbusti, con due soldati e una guida mezzosangue al fianco. Finalmente si decise per una sortita, e scampò miracolosamente a un ultimo assalto di Lakota e di Cheyenne. Lui, “Charles De Rudio”, italiano, sopravvisse alla terribile battaglia, come altri cinque italiani, suoi commilitoni, che, anche loro, sopravvissero agli eccidi.
La cattiva fama che i giornalisti gli procurarono, dopo la sua testimonianza a favore del maggiore Marcus Reno, non riuscì a impedirgli di far carriera nell’esercito. Si congedò col grado di “maggiore della riserva”, a 64 anni. Morì a Pasadena il 1° novembre 1910, a 78. Nel suo letto, confortato dalla moglie e dalle figlie Italia, Roma e America.
Un’esistenza avventurosa, unica: due condanne a morte, una grazia, tre evasioni, il piano ordito e gli ordigni contro Napoleone III, la fuga senza speranza dalla Caienna, la guerra di Secessione, il massacro di Custer, suo comandante, nel più leggendario degli scontri con i nativi americani; in effetti, con una vita come questa, risulta incomprensibile che il conte e rivoluzionario Carlo Camillo di Rudio non compaia come un eroe, anche se controverso, nei nostri libri di storia, che non gli si dedichi spazio nei testi per le scuole.
Probabilmente gli nocque, fino al punto di farlo scomparire dagli annali, l’aver confidato a uno studioso che una delle bombe della strage di Parigi l’aveva scagliata contro il corteo imperiale un famoso e fervente mazziniano (poi garibaldino, uno dei Mille), il cui nome fu solo sfiorato nelle indagini né venne più evocato nelle aule dei Tribunali: Francesco Crispi. Crispi era diventato nel frattempo il capo del governo italiano. E tutta la vicenda, conte compreso, finì insabbiata.
[Per chi volesse conoscere, passo dopo passo, tutta l’incredibile storia di Carlo Camillo di Rudio, segnalo il libro indispensabile di Cesare Marino: Dal Piave al Little Bighorn (Belluno, 1996). Marino, insieme al professor Emilio Franzina, massimo esperto della presenza dell’immigrazione italiana nel Far West, al generale Gualtiero Lorenzon, e al formidabile cronista Vincenzo Mollica, è stato uno degli autori del programma-evento “Piccoli Grandi Uomini: Gli Italiani a Little Bighorn”, che produssi e scrissi per Rai-International nel 1998].