Ne “Le avventure della notte di S. Silvestro”, il protagonista, che è evidentemente lo stesso autore del racconto, cioè E.T.A. Hoffmann, incontra in una birreria Erasmo Spikher, un omettino che, quando si affaccia su uno Specchio, non vede nulla di sé, perché ha perso il proprio riflesso. Erasmo da allora vaga per il mondo in compagnia di Peter Schlemihl (“l’Uomo senza Ombra”), per recuperare la propria immagine, che si è sdoppiata e ormai vive al di fuori di lui.
V- Il “Doppio” nello Specchio
Il nostro più domestico “Doppio” è certo il Me Stesso che abita lo Specchio.
I cosiddetti Primitivi, in esso, non vedono il riflesso, o la copia, del loro corpo, ma l’epifania dell’Anima. “Gli Andamanesi considerano come loro Anime non le loro ombre ma le loro immagini nello specchio“, narra Frazer, e aggiunge: “quando i Motumotu della Nuova Guinea videro per la prima volta la loro immagine in uno specchio, credettero che fosse la loro Anima”.
“La ragione per cui gli ammalati non devono guardarsi allo specchio”, ricorda ancora Frazer nel Ramo d’Oro, è collegata, anche in Europa, a questa credenza, e ne è evidente il motivo. Nella “camera di un malato si coprono gli specchi” perché “in tempo di malattie, quando l’anima può volar via così facilmente, è specialmente pericoloso proiettarla fuori del corpo riflettendola in uno specchio”.
Saper “vedere l’Anima nello Specchio”, è una delle prove iniziatiche più selettive per certi popoli africani. Lo apprendiamo da un saggio di Benjamin Goldberg, Lo Specchio e l’Uomo:
“Nella regione corrispondente all’ex Congo francese, gli indigeni praticavano una forma di catottriomanzia durante le cerimonie iniziatiche. Dietro la capanna cerimoniale […] si disponevano le ossa di un uomo morto da lungo tempo; vi si disponeva accanto uno specchio, in modo tale che riflettesse le ossa. Colui che era sottoposto alla cerimonia d’iniziazione doveva guardare l’immagine riflessa, e fino a che non riusciva a scorgervi e a descrivere con precisione le fattezze del morto (che non poteva assolutamente aver conosciuto) non veniva ammesso alle prove successive”.
Come si sa (la propaganda colonialista l’ha sempre messo in rilievo) i presunti “Selvaggi” adorano gli Specchi. Non solo perché queste luminose superfici sembrano trattenere l’Anima. Specchietti e perline, secondo la letteratura popolare, sono gli omaggi da loro più graditi, e pur di averli, possono donarti in cambio una fortuna. In realtà, chi regala al primitivo uno specchio, gli dà un bene molto più prezioso di un monile o di un gioiello: perché lo Specchio è una metafora del Cielo, quando viene la notte, e, di giorno, una scheggia di Sole, che porta la luce nei luoghi più bui e desolati.
VI- Limitazioni
Hawthorne non pensava certo a una fiaba, ma a un dramma lancinante, quando inventò lo “specchio che riflette il passato”:
“Un vecchio specchio. Qualcuno scopre il segreto per far sì che tutte le immagini che vi si sono riflesse scorrano nuovamente attraverso la sua superficie”.
È l’intuizione del cinematografo, e, in nuce, il progetto di “Old Esther Dudley”, uno dei Racconti narrati due volte. Così, di riflesso (è il caso di dirlo), scopriamo una semplice verità sugli specchi: che essi di norma riflettono solo il presente.
VII- Lo Specchio, nell’Epoca della “Riproducibilità” Tecnica
Dall’Oriente, la voce di ’Attar il favoloso così ci ammonisce: “Se Tu vedi un riflesso nello Specchio, come puoi essere certo che quello sia il Tuo viso?”.
Lo specchio ci rimanda per solito la nostra figura in modo segretamente fantastico e sempre “soggettivo”. Nella visione, giocano un ruolo fondamentale la nostra volontà, l’attenzione, l’esperienza, il nostro allenamento. Noi ambiamo essere uguali, in ogni momento, all’identica immagine che abbiamo di noi stessi. Nell’immagine “privata” dello specchio noi ci idealizziamo.
Nello stesso solco di ’Attar anche Jean Paul, che ha gettato i suoi “Sguardi sul mondo dei sogni”, ci induce a riflettere: «Mi sono messo davanti allo specchio e ho detto timoroso: “Voglio vedere che aspetto ho nello specchio con gli occhi chiusi“».
Impresa che non dobbiamo giudicare né fantastica, né inane: infatti la tecnica di oggi l’ha resa una routine.
Perché questa è stata la vera rivoluzione dell’epoca moderna: in una foto, nella registrazione “oggettiva” di una telecamera, possiamo da metà Ottocento conoscere il nostro viso “vero”, e le fattezze del nostro volto nello specchio, anche nel momento in cui teniamo gli occhi serrati.
All’epoca (1813-14) in cui scriveva Jean Paul, non era neppure ipotizzabile; egli pensava al suo esperimento come a un trionfo della Soggettività.
Mentre invece l’aspetto tragico dei progressi registrati in questo campo, è che l’istantanea o gli altri mezzi moderni di Riproduzione, non ci restituiscono mai quello che ci aspettiamo di vedere.
Prima della fotografia, del cinema, della tv, noi non sapevamo che ci potesse essere una visione di noi, diversa da quello della specchio, che credevamo fosse la più pura e “oggettiva”. Pretendevamo che gli altri avessero di noi la stessa immagine che noi riscontravamo nello specchio. Pochi fortunati erano stati dipinti, o disegnati, dai pittori: ma, poiché pagavano i loro servigi, pretendevano di trovarsi “somiglianti”, in quei ritratti. Cioè: di somigliare alla figura che a loro compariva nello specchio.
Improvvisamente, e con quale sorpresa!, ci siamo accorti dagli album di famiglia e dalle riprese dei filmini domestici, che sulla scena della realtà noi potevamo essere del tutto differenti dall’immagine cui eravamo assuefatti.
Non parliamo poi del movimento: come è amara la scoperta dei nostri automatismi, del nostro involontario esser “marionetta”!
Registrato da una telecamera, che continuamente e “in tempo reale” rimanda su un monitor la mia figura, io mi vedo già come mi vedono gli altri, e conosco di me aspetti ridicoli, o paurosi, o imperfezioni preoccupanti, di cui mai avrei voluto essere informato. Quale inutile spietatezza!
Lo Specchio è invece adulatore, assolutore. Anche con i più brutti e sgraziati tra uomini e donne, sempre clemente fu lo specchio. Si distruggono perciò più foto, che non si infrangano specchi. E non c’entra per niente il costo, o la scaramanzia.
Benjamin Goldberg riferisce d’un test fatto da Traub e Orbach nel 1964. Venne costruito uno speciale Specchio, a figura intera, flessibile in modo tale che l’immagine che rifletteva si distorcesse a piacimento. Era possibile governare meccanicamente gli impulsi che ne trasformavano, impercettibilmente, la superficie, ora concava, ora convessa. Si andava da un massimo di distorsione a un grado zero, in cui la lastra, sottilissima, tornava piatta.
Il soggetto interessato dall’esperimento si poneva davanti alla propria immagine distorta ed era invitato, agendo sui tiraggi, a variarla finché lo specchio non gli restituiva finalmente il suo aspetto “normale”.
Il Test si articolava in quattro fasi, ognuna degna d’un baraccone di Luna Park. Nella prima, in partenza, ci si vedeva col corpo allungato a dismisura e bisognava farlo tornare regolare; poi, nella seconda, la testa diventava enorme e le gambe piccolissime; nella terza fase, si diventava orribilmente asimmetrici, infine il corpo veniva rimpicciolito a dimensioni lillipuziane. In tutti i casi, si chiedeva a chi veniva testato di interrompere gli effetti della distorsione quando si riconosceva pienamente nel riflesso dello specchio: cioè, quando questo tornava a combaciare con l’immagine che ognuno ha del proprio “se stesso”.
Traub e Orbach, alla fine, raccolsero i dati, che risultarono del tutto sorprendenti. Numerosi soggetti, dopo aver trascorso qualche minuto davanti allo specchio cercando di regolarlo, “dichiaravano, molto imbarazzati, di aver dimenticato il proprio vero aspetto. Alcuni richiedevano insistentemente di potersi esaminare in uno specchio normale prima di effettuare l’esperimento, il che veniva loro concesso”. In particolare, il test si rivelava fallimentare quando gli esaminati cercavano di ricostruire mentalmente il proprio corpo dalla gola in giù. Neppure provavano un desiderio inconscio di “migliorarsi”: erano del tutto spaesati, “scorporati”.
I risultati dimostrano – a mio avviso – che ciò che chiediamo allo specchio è un attestato di Realtà diverso da qualsiasi altro.
Se lo Specchio ci mente, noi siamo perduti. Non riusciamo più a recuperare il nostro vero Io, la nostra immagine. Il brivido espressionista che proviamo nei labirinti delle fiere popolati di specchi oblunghi ed illusori, e che esorcizziamo con una risata troppo sguaiata per non essere rivelatrice, scaturisce proprio da questi profondissimi terrori.
Agli stessi soggetti, Traub e Orbach sottoposero anche delle fotografie alterate, che li ritraevano. In questo caso, il test riuscì pienamente. Ognuno di loro identificò sia i punti e le modalità con cui l’immagine era stata distorta, sia la foto che li rappresentava “normalmente”.
Ciò prova, ancora una volta, che nonostante il bombardamento che subiamo in questa interminabile “Era della Riproducibilità Tecnica”, fotografia, film e televisione sono troppo “reali” e quindi incompatibili con la magia, e la metafisica, dello Specchio.
[SEGUE]
[in copertina: un’illustrazione di J C Leyendecke]