I- Hitchcock ha mostrato la morte sullo schermo come nessuno prima di lui.
Si può dire che la visione dettagliata di un omicidio sia il centro motore intorno al quale costruisce la maggior parte dei suoi film: la sua poetica. E, come dimostra Delitto perfetto, del 1953, uccidere è – anche – un’esperienza sessuale. Almeno nell’immaginazione di chi non ha mai ucciso. Il sicario che deve soffocare Grace Kelly si getta su di lei opprimendola con tutto il corpo, la rovescia sulla scrivania, ma la donna gli si ritorce contro e lui, muore al suo posto, trafitto dalle forbici – simbolo freudiano dell’atto mancato come “castrazione”.
Non ci viene risparmiato il minimo dettaglio, neanche un secondo di questo assalto “tridimensionale” e in diretta: e lo stesso avverrà in Psycho, nella celebre scena dell’assassinio di Janet Leigh, nuda sotto la doccia.
In Vertigo (dove tutto ruota intorno alla vertigine che precede l’orgasmo, il godimento), i cadaveri volano giù dalle finestre spalancate sul nostro inconscio, e il raccapriccio sta nel riconoscere che quello è il momento nel quale eccitano di più la nostra fantasia.
II- Vertigo non è solo la “reincarnazione” di un film sulla reincarnazione, un’Anima di film revenant, che “ritorna” e che va quindi rivisto al contrario: è anche la più completa riflessione “teorica” sul cinema di Hollywood che Alfred Hitchcock si sia mai concesso.
Credo sia questo il reale motivo per il quale è stato votato come il film migliore della Storia del Cinema.
Perché rappresenta, in modo totale, e totalmente al di là di ciò che racconta, l’Essenza del Cinema (della “Finzione-Cinema”) secondo uno dei suoi Padri Fondatori.
Il comportamento della Novack in Vertigo è ulteriormente incomprensibile se non le riconosciamo questa investitura: Kim, la “morta che torna in vita”, è il Cinema. Kim rappresenta il Fantasma del Cinema – ne “incarna” lo Spirito, inteso anche come Spettro. Questo è il senso “teorico” dei lunghi , estenuanti, lenti inseguimenti con i quali James Stewart pedina “La donna che non ha mai vissuto”, interminabilmente. E la camera inquadra di continuo lo sguardo del protagonista, fino a farlo diventare emblema e simbolo del “lavoro” dello spettatore nel buio della sala cinematografica.
Tutto il Cinema, ci insegna Hitchcock, non è altro che una Visione di Fantasmi, “Revenants”. Ai quali la nostra Fantasia ridona un corpo da “amare”, da “desiderare”.
Che altro sono le Star, se non questo? Corpi di celluloide messi a disposizione dei nostri desideri più segreti, le nostre voluttà, le nostre perversioni.
“Bestiame”, Così ha definito le Star Alfred Hitchcock. Cioè, detto in altri termini: corpi da “macellare”. Lo attira, soprattutto, la prospettiva di metter la loro vita in pericolo: le immagina vittime di ogni tipologia di “tentato omicidio”, compreso il più improbabile, purché sia “sorprendente”. In Intrigo internazionale (1959) assassini senza nome e senza volto piombano sul protagonista giù dal cielo, all’improvviso – non al buio, ma in pieno sole, non in un ambiente affollato, ma in un appezzamento di coltivazioni –, mentre il suo sguardo, spaziando fino all’orizzonte, non aveva intravisto fino allora nessuna minaccia.
Le star tanto più interessano Hitch, quanto più si avvicinano allo status di morti/morte che camminano. Cary Grant in Notorious si decide a rimpossessarsi di Ingrid Bergman solo quando la trova nel suo letto di morte. È durante l’agonia che il letto si rivela un irresistibile richiamo per il necrofilo innamorato.
Non è una trovata, ma una “necessità interiore”, a quel punto, che spinge Hitchcock a “fare a pezzi” la sua Star, Janet Leigh, appena dopo 40 minuti dall’inizio del film Psycho – inno totale all’Arte della Necrofilia.
Nel Dittico finale “Vertigo–Psycho“, vediamo culminare una ricerca che il Maestro inglese ha iniziato ai tempi del muto e affinato nel corso del tempo, fino a farla diventare una forma di riflessione “autocosciente”. È mentre dirige questo nucleo di film, tra il ’58 e il ’60, che il regista mette a fuoco la sua ultima scoperta: che non ha più bisogno di uomini e di donne, come attori, per mostrare un omicidio compiuto nel modo più efferato. Nella Finzione-Cinema non è affatto indispensabile un’identificazione superficiale, anche momentanea, con l’assassino. Dall’ufficetto di Norman Bates, i volatili impagliati (altro simbolo necrofilo) prendono vita e come revenants inarrestabili, attaccano, uccidono, accecano i nostri simili indifesi: questa è la storia de Gli Uccelli (1963).
A torto questa ricerca è stata confinata dalla critica in una dimensione “onirica”, di “sogno”. Ma i Sogni di Hitchcock sono “Day Dreams”: Sogni a occhi aperti, fantasticherie intorno a argomenti precisi, con un fine preciso e con una fine (narrativa) precisa.
Vertigo e Psycho sono esempi di film che si riappropriano dei Sogni, per risognarli a occhi aperti. I Sogni vengono ricostruiti (non come in Fellini, con complicità e condiscendenza, e neppure al modo dei surrealisti, ma) col preciso scopo di dettare alla loro “forma” nuove regole. Regole che non appartengono ai Sogni stessi.
È questo un altro dei Segreti del Cinema, uno dei più profondi e autentici: che attraverso il cinema i nostri Sogni hanno imparato a “sognarsi” e a “narrarsi” in un modo diverso. Cioè: come “film”.
Il “sonnambulismo” obbligato dello spettatore, non è altro che l’abdicare della mente alle sue pretese di interpretazione della Realtà: noi – attraverso quel Sogno a occhi aperti che è il Cinema – ci trasferiamo nell’anticamera dei Sogni veri e propri, quelli che ci attendono la notte, e che sogneremo magari dopo decine di anni, quando anche la più misera memoria del nostro “Sogno a occhi aperti” di allora, provocato dai film che abbiamo visto, sarà svanita del tutto. Voglio dire: è l’impronta dei film di Hitch che permane e permarrà come archetipo nel nostro “lavoro onirico”, e non viceversa. Questa è la Forza del Fantastico.
III- È vero – lo ha comunicato con la consueta voce scandita e reboante il regista a François Truffaut – che Vertigo è soprattutto una storia di “Necrofilia”.
Aggiungiamo: Vertigo non è soltanto un film sulla Necrofilia, come ha sempre ammesso Hitchcock; è un invito costante a diventar necrofilo e a vedere la realtà con gli occhi del voyeur-necrofilo.
Ma davvero Hitch avrebbe sfidato i gusti del pubblico fino a questo punto, per turbarlo rivelando i risvolti morbosi di una perversione in apparenza così poco diffusa? Non si dovrebbe dire piuttosto che “necrofilia” è il senso, il significato del rapporto che lega lo spettatore a ciò che si muove sullo schermo? Che “Necrofilia” è come dire: “Cinefilia”?
Tutto il Cinema è Necrofilia, sembra affermare la visione poetica, e teorica, di Hitch.
E non solo nel senso della definizione (o battuta) di Cocteau, purtroppo ormai consegnata definitivamente al repertorio delle banalità, che il “Cinema è la morte al lavoro”.
Lo è, dal punto di vista “formale”. La pellicola reca impresse una dietro l’altro solo immagini fisse (morte), che scorrendo lungo una perforazione danno l’illusione del movimento; corpi senza vita cui la successione delle singole inquadrature immobili, in modo incomprensibilmente misterioso, ridona la vita.
Ma lo è anche dal punto di vista sostanziale (o almeno, si può ipotizzare, che in questo consista il suo Segreto).
Il Cinema è l’unica forma di spettacolo, dopo quella che anticamente aveva luogo nelle arene gladiatorie, che riesca realmente a emozionarci con la sua “Violenza”. L’unica forma d’Arte – e su questo, Hitchcock è stato sempre esplicito –, che possa inglobare la visione della Violenza come suo elemento essenziale, costitutivo. E non c’è violenza maggiore della Morte, tra tutte quelle che possiamo subire.
Attraverso quelli che l’opinione comune ritiene solo “Thriller”, Hitchcock ci rivela, forse, il reale motivo che spinge uomini e donne al cinema: sperimentare la morte, avere, della morte, una nuova esperienza.
Il cinema diventa allora la camera da letto nella quale è lecito, per gli spettatori, accoppiarsi con le proprie paure più profonde.