I- “Tra i filmmakers” – ha detto Hitchcock a Truffaut – “c’è generalmente la tendenza a dimenticarsi del pubblico. Io mi sento personalmente interessato al pubblico. Un film deve essere concepito (designed) per duemila spettatori seduti, non solo per uno. Questo è il fondamento del potere del cinema, il mezzo di comunicazione di massa più importante del mondo”.
Hitch era soprattutto interessato che gli spettatori seduti fossero anche centinaia di migliaia e naturalmente: paganti.
L’insuccesso di Vertigo (in Italia: La Donna che visse due volte) l’aveva scottato. “Come andò al botteghino?” chiede Truffaut. E lui: “Pareggiò, coprì le spese”. “Il che per lei significa un fiasco”. “Suppongo di sì” – ammise.
Per questo subito dopo, nel 1959, diresse un film di spionaggio, un thriller con Cary Grant che guadagnò milioni a colpo sicuro: Intrigo Internazionale, il cui titolo vero, intraducibile, era un “nonsense” inapplicabile alla bussola: North by Northwest.
Ma evidentemente la ferita aperta da Vertigo bruciava ancora. Cos’è che in quel film davvero perfetto non aveva funzionato? L’assenza di paura.
Bisognava in qualche modo “rigirarlo”, e puntare solo su questo: terrorizzare il pubblico.
Il film precedente, con Jimmy Stewart e Kim Novak, era troppo allusivo, troppo beneducato, troppo “soffuso” e manierato, in una parola: troppo melodrammatico nel trattare un argomento che gli stava tanto a cuore. Non bisognava più trovare scuse. Non bisognava più “sviluppare” la trama dipanandola a poco a poco, a vortici, intorno a una star talmente amata che finiva per stemperare l’impatto della suspense sulle folle: ma occorreva sferrare al pubblico un pugno diretto nello stomaco. Il pazzo di Vertigo (Stewart) ha ancora un barlume di motivazioni, è in bilico sulla via della guarigione. In Psycho il pazzo è pazzo e basta e nessuno psicoanalista potrà mai salvarlo dal suo precipizio.
E allora Hitchcock inventa un meccanismo dell’orrore – non solo terrore ma proprio: orrore – che resta per perfezione ineguagliato.
Si tratta però, in qualche senso, dello stesso film, stessa materia, stessa faccia in due medaglie differenti. Appartengono, entrambi, Psycho e Vertigo, a un dittico sulla “Necrofilia”.
Se esistesse un luogo, un Tempio, consacrato alle Perversioni, i due film figurerebbero – come fossero tele – uno accanto all’altro sulla stessa pala d’altare. Come Amor Sacro e Amor Profano.
La necrofilia di Stewart è, infine, un po’ lurida, perché l’oggetto del suo amore gli si concederebbe volentieri.
La necrofilia di Perkins ha invece un oggetto freudiano preciso, la Madre.
II- Come Kim Novak in Vertigo, Hitchcock regista dissemina Psycho di false tracce e falsi indizi che nulla rivelano sugli sviluppi della “vera” trama. Cito le sue parole: “Si gira e si rigira il pubblico così lo si mantiene il più lontano possibile da quello che accadrà”.
Il film sembra almeno per mezz’ora la storia di una matura ragazza, Marion (Janet Leigh), un’impiegata piccolo-borghese che in un alberghetto di Phoenix fa l’amore con il fidanzato rubando il tempo alla pausa-pranzo, esattamente dalle 14 e 43 (ora sui titoli) alle 15:01 (lancette dell’orologio del suo uomo, steso accanto a lei). 18 minuti.
Tanto è deprimente e senza prospettive quella relazione, che in un momento di debolezza Marion scappa per raggiungere l’amante squattrinato con 40.000 dollari in contanti, sottratti al suo datore di lavoro. Ma poi, stanca, preda di scrupoli morali e già pentita del furto, la ragazza devia e si rifugia in un motel deserto, fuori dalla strada principale, sormontato da una casa in puro stile “gotico californiano”.
Lì incontra Norman Bates, il custode-proprietario (Anthony Perkins), un ragazzo problematico morbosamente attaccato alla madre, che, lui le racconta, soffre attualmente di disturbi mentali.
Mentre Marion fa la doccia nel suo squallido appartamento, una buia figura che indossa una vestaglia femminile irrompe nella stanza da bagno e la trucida barbaramente, trafiggendola più volte con un coltellaccio. La scena dell’omicidio, perpetrato sul corpo “nudo” di Janet Leigh, è una delle sequenze più famose dell’intera storia del Cinema.
Norman fa sparire il cadavere, e il pubblico crede che lo faccia per sviare ogni sospetto dalla madre. Senonché, dopo un nuovo delitto, avvenuto questa volta all’interno della casa “gotica”, il fidanzato e la sorella di Marion, che stanno indagando sulla scomparsa della ragazza, scoprono, in modo orribile, la verità: in cantina trovano la mummia della madre di Norman, morta da dieci anni. Il killer seriale, in questa storia, non è lei, ma il figlio, il custode del motel. Necrofilo provetto, Anthony Perkins si sdoppiava nell’adorata madre, ne assumeva la personalità, si vestiva come lei e indossava la sua parrucca, quando era irresistibilmente indotto dalla sua psiche malata a compiere un delitto.
Quello che nessuno tra gli spettatori avrebbe mai immaginato è che Norman aveva conservato la mummia della mamma, impagliandola personalmente, per poter discorrere e litigare con lei imitandone la voce.
La storia sembra troppo macabra per essere “vera”. Eppure lo è. Come Hitchcock spiegò a Truffaut: “c’è stato veramente qualcuno che teneva in casa il cadavere della propria madre da qualche parte del Wisconsin”. Il mediocre romanzo di Robert Bloch su cui si basa la sceneggiatura è ispirato alle reali vicende giudiziarie di Ed Gein, assassino seriale, violatore di tombe e cimiteri, che era solito commettere atti di necrofilia sulle sue vittime fresche di squartamento, e arredava il proprio quartierino con i pezzi di quei corpi.
Sui moventi “psicologici” dell’assassino, Hitch spende, alla fine, poche parole, messe in bocca a un insopportabile psichiatra. Giusto l’essenziale, dal momento che il complesso d’Edipo è già stato spiegato e rispiegato al pubblico americano da tutti i Reader’s Digest.
Certo nel film si va oltre, e si dimostra che il matriarcato negli Stati Uniti è talmente potente che si mangia anche l’Edipo maschile. Perciò, Norman Bates non pretende per sé, freudianamente, il ruolo del padre, che vuole uccidere per rimpiazzarlo nel letto della madre: il pazzo di Psycho prende addirittura l’identità della madre, e si sostituisce a lei facendo strage di ragazze che possono farle concorrenza, in un delirio schizofrenico e transgender sul quale all’epoca (1960), dal punto di vista “scientifico” era meglio non indagare a fondo.
A Peter Bogdanovich che lo intervistava, Alfred rivelò che il suo approccio alla materia esasperatamente scabrosa del film era stato: “umoristico”. “Se avessi voluto fare il film seriamente, avrei dovuto raccontare dal di dentro e mostrare il funzionamento psicologico del personaggio. E invece, nel film io lo mostro dall’esterno”.
A Hitchcock, dunque, non interessava dare un senso compiuto e comprensibile all’identificazione finale tra Perkins e la genitrice: pensando per immagini, l’attraeva di più atterrirci mostrando all’improvviso la mummia materna, indubbiamente morta e avvizzita, tenuta sotto conserva, al fresco della cantina. E pure lo intrigava e sicuramente lo divertiva la doppia dissolvenza con la quale chiude il film: il sorriso del folle che si innesta sulla chiostra dei denti, orribilmente scoperti, del teschio della madre. Ingestione, digestione perfetta. Trionfo della Necrofilia.
III- Psycho nel 1967 aveva già incassato 13 milioni, ma nel 1960, quando fu realizzato, era costato appena 800 mila dollari. Bella rivincita sul quasi fallimento di Vertigo.
I costi contenuti dipendevano da una precisa scelta registica. Il bianco e nero, dopo una serie di grandi film in technicolor, poche settimane di ripresa, troupe ridotta all’essenziale, una star, Janet Leigh, che non aveva pretese milionarie, e un Perkins fresco d’esordio che contrariamente alla Leigh (Quinlan) non aveva mai recitato in un thriller, ma quasi solo in parti da ragazzo ingenuo e buono.
Il modello seguito dal regista fu indubbiamente quello “Televisivo”.
Per la maggior parte, stragrande, delle riprese, Hitchcock ha girato Psycho esattamente come se fosse, benché dilatato nella durata, uno dei suoi telefilm che allora riscuotevano un enorme successo sui canali della CBS.
Ma all’improvviso, dopo 40minuti di tran tran televisivo, dentro questo “Film per la TV” irrompe il Cinema. Cinema “puro”, come lo chiama Hitch, orgoglioso di questa “riappropriazione” che travolge tutto e tutto scompagina.
Non c’è alcun dubbio che quello che lo ha convinto a dirigere il film e a produrlo con i propri soldi, è – lo racconta lui stesso –, “il modo improvviso in cui si commette l’omicidio sotto la doccia. È del tutto imprevisto ed è questo che mi ha interessato”.
In Psycho, tutto ruota intorno a questa scena, ne è il nucleo teorico, la ragione d’essere. Così sconvolgente, per il pubblico, che il regista dové attenuare i toni e le immagini del delitto successivo, quello che vede come vittima il detective Arbogast (Martin Balsam), per cui, “man mano che il film va avanti c’è sempre meno violenza perché il ricordo di questo primo omicidio è sufficiente a rendere angosciosi i momenti di suspense che verranno più tardi”.
Totalmente scioccante, per il pubblico, è anche constatare che, dopo appena 40 minuti, la star della pellicola, Janet Leigh – macellata, occhio sbarrato – , lascia la scena, e non comparirà più, neanche come flashback.
IV- “Io credo nel Cinema puro”, ha affermato Hitchcock. “Certuni dicono che il cinema è azione, Ma è una concezione erronea. Il movimento è solo una parte del cinema. Neanche lo spettacolo è Cinema; e nemmeno fotografare degli attori che recitano. Se ti basi sulla recitazione, fai del teatro filmato. Secondo me, la cosa essenziale in un film è il montaggio. Solo il montaggio ha la capacità di suggestionare lo spettatore”. Detto in altri termini, ma sempre hitchcockiani: “solo il montaggio può rendere straordinario l’ordinario”. Altrimenti il Cinema è troppo simile alla Realtà.
Il trionfo di questo Credo “Filmico” e – insieme – “Fantastico”, si trova in Psycho. Nella scena dell’omicidio sotto la doccia sono state utilizzate “75 inquadrature in 45 secondi”. Stupefacente. Sconcertante, perturbante.
Da quel momento in poi non è più possibile, per gli spettatori, distrarsi, tanto violento è stato il trauma. La formula che Hitchcock applica, è dichiarata: “si crea un linguaggio per immagini che stabilisce un’atmosfera e prepara il pubblico: e poi, fin dall’inizio, lo si bombarda con una tale dose di paura e di ansietà che via via con il procedere del film, sarà il pubblico a lavorare per noi”. Il regista non ha solo in pugno gli spettatori, ma li invita a “lavorare” psichicamente sulla trama, esattamente come agisce la Letteratura Fantastica sulla mente stimolata del lettore. Di conseguenza, non c’è più posto al cinema (inteso come “sala”) per i pigri occhieggiatori, i perdigiorno, i ritardatari, i rabdomantici carezzatori al buio di braccia femminili. Il pubblico timbra il cartellino, come se si presentasse sul posto di lavoro. Perciò, l’orario di entrata, per Psycho, è ferreamente stabilito.
Ci volle una settimana, alla troupe, per girare la “scena della doccia”, che dura sullo schermo molto meno di un minuto. Va però detto, che in questo pezzo mozzafiato e ineguagliabile di virtuosismo cinematografico (esaltato dalle note stridenti della grande musica di Hermann) , nessuna delle “75 inquadrature in 45 secondi”, mostra effettivamente ciò che il pubblico è ansioso di vedere in quel momento. Benché tutti siano convinti del contrario, “il coltello non tocca mai il corpo. Resta l’impressione, ma in realtà non è così. L’effetto viene raggiunto con il montaggio. E non viene mai mostrata nessuna parte tabù del corpo della donna. Anche l’illusione della nudità viene raggiunta attraverso il montaggio. Tutto quello che si vede di Janet Leigh sono le mani, le spalle e la testa. Il resto è di una controfigura. Girando al rallentatore siamo riusciti a controllare l’esposizione del corpo nudo”, racconta Alfred a uno sbalordito Truffaut.
Forse la presenza continua, sul set, della controfigura, una bellissima modella priva di indumenti, è sufficiente a spiegare perché le riprese di 45 secondi di film durarono una settimana. Ma nelle scelte tecniche così inaudite e complesse d’Hitchcock può annidarsi qualcosa di ancora più nascosto e difficilmente confessabile. Non parlo di impulsi morbosi inconsci, da manuale psicoanalitico, o da Reader’s Digest, ma di Cinema.
Hitchcock dirigeva e finanziava Psycho per conto della Paramount. Dal tempo dell’entrata in vigore del Codice Hays era probabilmente, quella, la prima volta che in un film distribuito da una Major (una grande casa di produzione negli Stati Uniti), la macchina da presa si intrufolava dietro la tenda di una doccia insieme a una Star completamente nuda. E vi restava per “documentare” un ammazzamento. Il rischio di una condanna morale e materiale che una simile sequenza comportava era altissimo, e un rifiuto, o un ritorno in sala di montaggio imposto dallo Studio, potevano avere contraccolpi micidiali sui ricavi. Al tempo stesso, però, la tentazione di osare l’inosato (fino a quel momento), per Hitch doveva essere irresistibile.
Lui voleva a tutti i costi catturare i nuovi gusti del pubblico cinematografico adulto in materia di sesso, che non solo conosceva bene, ma condivideva.
In quel momento topico – l’inizio della scena della doccia – aveva condotto gli spettatori per la prima volta a un passo, a un millimetro, a un fotogramma, dal vedere quello che fino allora era invisibile, e non-rappresentabile in America: l’intero corpo, scoperto, femminile.
Si può dire allora che i tagli che la Censura avrebbe preteso, e che il pubblico-voyeur aveva temuto (oppure sperato, per liberarsi dall’angoscia), li ha fatti Hitchcock stesso alla moviola: ci ha costruito intorno il “senso” dell’intero Psycho e il cuore stesso della sua filmografia. Geniale gioco con i Desideri collettivi, per estrarne “Cinema puro”.
Dell’Umorismo che anima Psycho secondo il suo creatore, farebbe dunque parte – secondo questa ipotesi – anche il dileggio, il raggiro del Censore. Simboleggiato dal personaggio ossesso della finta-madre che, nascosta fino a quel momento dietro il set, irrompe e fa direttamente a pezzi la protagonista nuda, senza aspettare che le recapitino il film finito, e troppo audace, da sforbiciare in commissione. Identificazione totale, mai ripetuta, tra la pellicola cinematografica e il personaggio inciso sopra la sua patina. Operazione che solo i cartoni animati di Tex Avery avevano tentato. Mostrare la Censura “al lavoro” sul corpo vivo dell’Attore/dell’Attrice.
Mentre l’obiettivo della camera si irrora di spruzzi della doccia, morale puritana, trama d’orrori e immaginario collettivo in quel momento esigono che il bel corpo femminile, una volta denudato, venga anche immediatamente infilzato, soppresso, rimosso, e occultato giù nelle paludi dell’inconscio. E questo Psycho ci mostra, spietatamente. Come se Hitchcock ci svelasse, in un cortocircuito teorico e insieme creativo, che la pulsione di noi, pubblico del cinema, verso la Necrofilia è più forte dello stesso Voyeurismo e, comunque, non è mai dissociabile da questo.
(CONTINUA)
[L’ultimo articolo sul “Dittico della Necrofilia: Vertigo e Psycho“, comparirà su questo sito il 13 agosto, anniversario della nascita di Alfred Hitchcock]