I- Vertigo (in Italia: La donna che visse due volte) – diretto nel 1958 da Alfred Hitchcock –, è stato giudicato di recente, da una giuria d’esperti, il miglior film della storia del Cinema. Per noi cultori del genere, è motivo d’orgoglio che questo riconoscimento sia andato a un film “fantastico”. Vertigo infatti si distingue totalmente dalle altre produzioni di Hitchcock. Quelle precedenti, quelle successive. Non è un thriller, non c’è neppure una scena di autentica suspense: è una Ghost Story. E anche come storia di fantasmi è ambigua, e priva di ogni connotazione “horror” – quel tipo di ingredienti che “Hitch” padroneggerà da maestro nel suo film di appena due anni dopo, Psycho.
Hitchcock dirigeva il pubblico, si vantava di conoscere tutte le sue reazioni: “le grida di paura in Giappone sono le stesse che in India”, sosteneva. Ma in Vertigo la paura non si affaccia, nemmeno da lontano. Gli spettatori, perciò, non gradirono tanto: gli avevano promesso un thriller, si ritrovarono a districare la matassa di un melò. Un melò fantasmatico per giunta.
II- Anche se la domanda non è affatto pertinente – perché si tratta d’un film soprattutto “muto” –: di che cosa “parla” La donna che visse due volte? In superficie: d’un “delitto perfetto”.
Un ex detective quasi cinquantenne – “Scottie”, impersonato da James Stewart – ha lasciato la polizia a causa di un trauma, e da allora è devastato dalle vertigini e dall’acrofobia, la “paura del vuoto e dell’altezza”.
Un vecchio amico, che non vede dai tempi del college, lo ingaggia perché vigili sul comportamento della moglie, “Madeleine”. La Donna (una stupenda Kim Novak) manifesta di continuo propositi di suicidio. Durante le sue “transe” è convinta di essere la “reincarnazione” di una sua bisavola, la pazza “Carlota Valdez”, che si è uccisa un secolo prima. Madeleine sente l’impulso, costante, di ripetere quel gesto.
“Scottie” la segue e se ne innamora. La salva da un tuffo fatale nella baia di San Francisco, prima che anneghi; ma non riesce a impedirle di togliersi la vita, quando la Donna elegge, come luogo deputato al suo suicidio, l’alto campanile di un convento. A causa delle sue turbe e delle vertigini, il detective non può seguirla fino in cima: la vede solo precipitare, da lontano, “impotente” a fermarla. A quel punto, impazzisce.
Scottie trascorre un anno in una casa di cura e, uscito appena da qualche giorno, si imbatte per caso in una ragazza, “Judy”, che somiglia moltissimo a Madeleine. L’abborda, la convince a vestirsi e a truccarsi come l’amata defunta. Ma proprio quando finalmente stringe tra le sue braccia la copia perfetta di lei, della morta, scopre con orrore di essere vittima d’un diabolico raggiro.
La Donna che lui proteggeva non era la moglie dell’amico che l’ha ingaggiato, ma proprio la ragazza incontrata per caso: una sosia prezzolata per impersonarla, che gli raccontava solo favole e fantasie di morte. La vera Madeleine l’ha uccisa il marito, gettandola, col collo già spezzato, giù dal campanile, nell’esatto momento in cui Judy saliva fino in cima alle scale, mentre Scottie, squassato dalle vertigini, si era fermato ansimando di paura al piano inferiore. L’inchiesta ha stabilito che la Donna si è uccisa, solo sulla base del racconto di Scottie, e non ha indagato oltre. Movente del crimine: soldi. Eredità. Che puntualmente l’assassino incassa e poi sparisce. “Delitto perfetto”, dunque.
III- Tuttavia, ed è una cosa strana, non c’è niente di “perfetto” in questo crimine, e non c’è nulla di perfetto nella trama. Hitchcock lo ammise, parlando con Truffaut: “c’è un buco nella sceneggiatura”. Tutta la montatura si regge su una speranza, più che su una certezza: che Jim Stewart, a causa delle sue vertigini straordinarie, non riesca a salire l’ultima rampa delle scale, quei pochi gradini che lo separano dalla verità: la vista, nello stesso luogo, delle due sosia, pressoché identiche – una viva, l’altra, morta – , che indossano perfino lo stesso tipo di tailleur. La visione “integrale” dell’omicidio dev’essergli preclusa.
E non è l’unico errore: la trama (tratta da un romanzo di Boileau e Narcejac, gli stessi autori dei Diabolici di Clouzot) è tutta un buco. Pare un setaccio, che fa colare giù dalle sue crepe ogni verisimiglianza.
In effetti, se ci fermiamo alla storia, le assurdità sono soverchianti.
Al marito omicida serviva un testimone del “suicidio” della moglie che non fosse per niente un testimone. Un testimone “oculare” che non vedesse il delitto. Qualcuno che fosse disposto a giurare il falso in tribunale, scambiando il falso per vero.
Il crimine è perfetto dunque solo se Stewart impazzisce: cosa che accade. Talmente folle che non si occuperà più della vicenda per un anno: non deve infatti, neppure per ipotesi, leggere un giornale: c’è la possibilità che i quotidiani pubblichino la foto della vera morta, che solo le somiglia, ma non è Kim. Altra crepa: l’assassino è stato formidabile nel creare un testimonio “invalido” delle proprie malefatte, ma non ha, personalmente, un alibi: ha trasportato la moglie priva di vita fino a un campanile distante 150 chilometri da San Francisco, poi l’ha portata in braccio su per tre piani di scale, col rischio costante di essere notato, perché non ha scelto per il suo delitto un luogo deserto, bensì un convento abitato e attivo. Può farla franca, il vecchio amico di Scottie, solo se verrà presa per vera un’unica testimonianza: quella d’un folle, adultero per giunta, che aveva dato già segni di squilibrio e che era stato allontanato dagli incarichi più importanti nella polizia a causa delle sue fobie.
E poi: perché Scottie, se era l’unico presente, non viene sospettato del delitto – visto che un movente, da innamorato e adultero respinto, poteva averlo?
III- Le assurdità sono così tante che debbono per forza “significare” qualcosa di diverso.
Hitchcock fu sincero con Truffaut quando gli disse: “la logica è noiosa”. Non lo hanno mai interessato i “mysteries” o le “detective stories” – i “gialli” tipici della letteratura, del teatro e della cinematografia anglosassone che, dai tempi di Sherlock Holmes, si basano sulle stesse regole: accumulazione di indizi e “ragionamenti” di stampo poliziesco.
E allora soprattutto in questo film, Vertigo, Hitch ci invita a non seguire la “trama”. Perché se si godono le immagini, densissime, ipnotiche, avvolgenti (anche grazie alla grande musica di Bernhard Herrmann), se si pedina la storia – come fa “Scottie” da dentro la sua macchina e poi su e giù per strade, camposanti, musei e alberghi di San Francisco – se la seguiamo nel modo più piano, piatto e senza scosse, emerge la verità, che il regista non ha mai nascosto: Vertigo è la storia di un desiderio folle, e di una perversione che non ha altro nome che: “necrofilia”.
Chi lo ingaggia è in realtà un amico che fin dai tempi del college deve conoscere la pulsione, la passione anomala di Stewart per le donne senza vita, e perciò gli propone di inseguire, perseguitare, infestare le passeggiate di una bellissima morta: una “reincarnata”, che non vede l’ora di rientrare nella fossa, al cimitero.
“Vorrei che tu seguissi mia moglie” – gli propone l’amico Gavin. “Non equivocare, siamo felicemente sposati… ma temo che qualcuno le faccia del male”
“Chi?” – domanda Scottie.
“Qualcuno che è morto”.
La parola “morto” diventa la parola chiave per scardinare la sua diffidenza e per convincerlo. Scottie non ha bisogno di soldi, non è mai stato un “occhio privato”, non è attendibile neanche come cinquantenne guardia del corpo: eppure subito, da necrofilo, accetta.
E sarà presto premiato: vediamo James Stewart seguire la Novak fino al Golden Gate, stranamente deserto. E Kim (Madeleine), in preda a trance, che si tuffa in mare, fingendo di affogare, al puro scopo di farsi, non salvare, ma “denudare”.
Infatti Scottie la condurrà subito, priva di sensi, nella propria casa, e la spoglierà “come se fosse morta”, senza alcuna partecipazione da parte di lei. Evidentemente Gavin, il marito omicida, prevedeva che Stewart, dopo aver “salvato sua moglie”, non l’avrebbe mai portata nè in un ospedale – dove avrebbero subito indagato sulla vera identità della donna –, né a casa di lei, al vero indirizzo – dove avrebbe immediatamente scoperto che non era la moglie dell’amico. Né lui ha cercato il soccorso d’estranei, né gli è venuto in mente di farsi aiutare dall’amica Midge, per toglierle i vestiti. La partita è a due. Il mondo esterno, quello dei vivi, è già scomparso.
L’innamoramento di Scottie per Madeleine diventa totale e ribollente di passione dal momento in cui lui ha spogliato il corpo splendido di Kim incosciente e senza vita. E la Novak, è notorio dai gossip e dalle pubblicità, non ha mai avuto bisogno del reggiseno.
IV- Il complotto non è mai stato scoperto, e Scottie, riacquistato dopo un anno di manicomio un barlume di ragione, ama ancora alla follia una donna che per lui è “morta”.
Così, quando ritrova per caso Kim, che ora si fa chiamare col nome “Judy”, non la riconosce affatto come la donna che ha seguito per alcune settimane. L’abbaglia, naturalmente, la somiglianza di lei con la pazza “reincarnata” che ha posto fine ai suoi giorni. Sente rinascere, irrefrenabile, il desiderio d’un corpo senza vita. E allora fa di tutto per ricreare la perduta figura della “suicida”, con la quale desidera ardentemente consumare i suoi amplessi: veste Judy con il medesimo tailleur, le impone di cambiare il colore dei capelli da rosso a ossigenato, la rende in tutto simile alla defunta e finta Madeleine.
Perciò, per Hitchcock, la scena madre del film non è quella che ruota intorno all’omicidio e al salto giù dal campanile. È il ritorno di Judy dal bagno, dove si è cambiata, e dal quale esce conturbante, soffusa di mortuaria luce verde, truccata e abbigliata come Madeleine. Vale di più, quella vestizione, che se fosse nuda. È il solo modo in cui quest’uomo riesce a raggiungere l’eccitazione, specifica il regista, prima di ordinare a Truffaut di interrompere la registrazione. “Fermi la macchina! Adesso voglio raccontare un’altra storia”.
V- Hitchcock ha detto a Truffaut (che stravedeva per il film): tutto quello che anima la volontà di James Stewart è “sex-psicologico”.
Nel suo dipanarsi “senza logica”, il film si rivela dunque la seduta psicanalitica perfetta.
Il personaggio di Stewart è la quintessenza delle perversioni del Maestro, quelle note e quelle meno note: raramente, credo, Hitchcock si è immedesimato con uno dei suoi protagonisti fino a questo punto.
“Scottie” è un folle e folle è la tenacia con la quale difende fino all’ultimo le sue più basse inclinazioni.
Da qui l’orrore, la ripulsa, che prova quando scopre che la sua “Madeleine” non è mai precipitata e morta, ma è ancora – pure e troppo – viva.
Kim gli offre il suo amore carnale, ma lui grida, a lei che è già tornata da un pezzo: “È troppo tardi! Nulla può riportarla indietro!” In nessun modo Judy, vivente, può soprapporsi all’immagine di Madeline, cadavere ambulante.
C’è un solo modo di ripristinare lo zodiaco pervertito dal destino: Scottie lo sa. E infatti, alla fine del film, lo vediamo trascinare la donna che lo ama, di nuovo, fino in cima al campanile per ucciderla.
Con volontà spietata, ridendo sadicamente.
“Finirà il mio tormento! Ora somigli a Madeleine: sali le scale, sali le scale!”
Rivelatrici, in questo senso, e in modo definitivo, sono le foto di scena volute da Hitchcock prima delle riprese e incautamente finite nelle locandine: si riferiscono a sequenze mai girate, o mai finite nel film montato. Le riproponiamo:
Nella prima, James Stewart uccide Kim Novak nella versione casereccia di “Judy”, fin troppo vitale e corporea, strangolandola.
Nella seconda foto, Stewart – sguardo da pazzo – si accinge a spingere Kim, che ha indotto a travestirsi da “Madeleine”, giù dalla cima del campanile della Missione, per farla precipitare.
Confessa Oscar Wilde, in un verso celebre della Ballata del Carcere di Reading: “Yet each Man kills the thing he loves” – “E pure ogni Uomo uccide la cosa che lui ama”. E Hitchcock parlando con Truffaut, con wildeiana coerenza chiama “cosa” proprio la stessa “cosa”: “la cosa con la quale quest’Uomo vuole andare a letto”.
VI- Ora, se la trama sottesa dal film (la “Storia vera”) fosse solo questa – l’aberrazione straripante e risoluta d’un bruto che non riesce a nascondere la propria propensione per la necrofilia –, sarebbe fin troppo facile per qualsiasi spettatore decifrarla, e estinguerne ogni risvolto perturbante. Ma a nostro avviso, non è affatto così. Il Cinema ha davvero preso un’altra strada, con Vertigo, del tutto differente da ciò che mostra. Il risvolto “fantastico” del film è ancora più profondo.
Vertigo è, dal punto di vista maschile, la vertigine che precede l’orgasmo, il godimento.
E questo brivido di assoluto piacere, che si raggiunge solo dando o ricevendo la morte, viene raddoppiato, se si riesce a uccidere di nuovo chi è già morto.
È il segreto del personaggio della Novak, che altrimenti sfugge a ogni classificazione “psicologica”.
“La donna che visse due volte” potrebbe insomma, a maggior ragione, esser piuttosto intitolato: La Donna che non ha mai vissuto.
Kim Novak è sempre stata morta. Sempre: dai tempi in cui si faceva chiamare “Carlota Valdez” – pretesa e finta bisnonna di Madeleine, pazza suicida – e in tutte le versioni successive a quella originaria: prima “Madeleine”, poi “Judy”. Per tutto il film e sempre: e in questo suo essere fantasma e spettro “carnale” risiede l’irresistibile attrazione “obituaria” che esercita sul “necrofilo” James Stewart.
Esclusivamente in questo modo si può spiegare l’assurdità del comportamento della Donna: testimone e complice di un delitto, è rimasta a San Francisco, col rischio di incontrare di nuovo chi poteva riconoscerla come truffatrice. Ha partecipato a un omicidio, sostiene: “per soldi”, ma poi vive in una stanzetta squallida e equivoca d’albergo, e (dice) fa la commessa in un negozietto dozzinale. Ma soprattutto: ha mantenuto la collana di Carlota Valdez e il tailleur grigio col quale aveva stregato James Stewart. Non si è mai liberata delle “prove” che avrebbe potuto condannarla alla sedia elettrica. Perché? Per il semplice fatto che gioielli e capi d’abbigliamento facevano parte fin dal principio del suo guardaroba. E: per il fatto ancora più semplice, che una condanna a morte l’avrebbe lasciata del tutto indifferente. Quasi una boutade, per una che è già morta.
VII- Se la sceneggiatura è, e lo è, come ammette Hitchcock stesso, tutta un “buco”, è un buco nel tempo. Che sembra aver sbagliato direzione. Perciò Kim, Anima che torna, si muove all’interno della storia come un flashback.
Facciamo allora un esperimento. Togliamo l’audio al film, togliamo tutte le battute. Riavvolgiamo la pellicola, mandandola all’indietro: un espediente magico che una volta era concesso solo al proiezionista.
Si vedrà bene che non c’è altra storia che quella di un fantasma. Che via via assume nuove forme pur di essere ancora “amata”, almeno per un po’. Uno spettro gotico che nessun vivente “vede” veramente: tranne Scottie.
In questo “secondo film” nato dalle immagini, totalmente visibile e persino prevalente su ogni altra lettura, il delitto consiste non nell’uccidere, ma proprio nel cercare di rivivere, nel tentare di “tornare indietro”.
Non è affatto una menzogna, insomma, che Kim si presenti a Scottie come una “Reincarnata”. Come però accade di solito ai fantasmi, ha riacquisito un corpo ed è tornata sulla terra per scontare una maledizione. Chiede vita e ottiene sempre in cambio, la morte, da chi ama. Ricacciata giù, come Proserpina, nell’Ade-purgatorio, dal quale lei continuamente emerge inseguendo il medesimo sogno erotico.
La ricostruzione concitata del delitto, a cui, alla fine, Stewart costringe Judy-Madeleine, come la lettera che lei scrive e poi strappa a metà film (in una sequenza che appare totalmente giustapposta), sono ridicole: e servono alla Donna soprattutto come alibi, per non confessare che lei – in questo “delitto perfetto” – non è l’assassina, ma la vittima.
È il dramma di Kim Novak: che deve difendersi dall’accusa di essere viva (con la quale la tortura Scottie), senza poter rivelare d’essere morta.
Di questo suo status di “defunta” si accorge però, al termine del film, la monaca cattolica che irrompe all’improvviso in cima al campanile e sembra (insistiamo: sembra) provocare la caduta della Donna, sorpresa da quella apparizione.
“Possa Dio aver pietà, della sua Anima”, dice la suora, prima di suonare la campana che la ricaccia definitivamente “indietro”.
Come Anima, come spettro, Madeleine infestava già da tempo, si vede, la Missione.
Dal punto di vista morale, se si dà credito alla superficie della trama, Kim è una donna avida e spregevole, oltreché una spietata killer. Sarebbe, in questo caso, solo l’ennesima “dark Lady hollywoodiana”, con l’aggravante d’essere comparsa sullo schermo al tramonto, e durante l’agonia, della gloriosa epoca del Noir.
Invece, considerata come Fantasma, e quindi come morta, è l’ultima “dark Lady” immaginabile dal Cinema. Un nec plus ultra. È la fine, il sigillo di tutte le dark ladies e di un intero genere.
E infatti la Novak stessa riemergerà da questa “Ghost Story” con ruoli che non avranno mai più la stessa intensità. Finché Billy Wilder darà il colpo di grazia alla sua carriera affidandole la parte sconveniente di una prostituta in Baciami, stupido (1964): gran film e grande “fiasco” al botteghino, dopo il quale Kim sprofonderà come un relitto.
[CONTINUA il 16 giugno con: “PSYCHO”, seconda parte del “DITTICO HITCHCOCKIANO SULLA NECROFILIA”]