Secondo lo studioso Mario G. Losano, la macchina da scrivere, come fu conosciuta nei secoli a noi più vicini, deve la sua esistenza ai Ciechi.
Le prime macchine “scrivane” non furono “dattilografiche”: furono veri e propri “androidi”. Ancora nel Settecento, non era concepibile “inventare” un meccanismo del genere, senza realizzare al tempo stesso, sotto forma di automa, l’uomo o la donna che tracciavano ogni parola in bella calligrafia.
Friedrich von Knaus, escogitando una macchina scrivente, posizionò il congegno dentro una graziosa statua, a cui una molla animava il braccio. Si imitava il gesto umano, e non il lavoro del tipografo.
A più di trecento anni dall’invenzione della stampa con caratteri mobili, questo tipo di automi anneriva le pagine impugnando ancora una penna, e bisognò attendere il 1837, con il “cembalo scrivano” escogitato dall’avvocato novarese Giuseppe Ravizza, perché la macchina da scrivere si emancipasse dalla riproduzione di braccia, mani, e dita.
Ravizza, si dice, si ispirò per il suo “cembalo” a una macchina originariamente concepita solo per i Ciechi, progettata a questo scopo dal romano Rampazzetto nel 1575. Questo debito non è mai stato storicamente accertato, ma, ove fosse confermato, si presta ad alcune riflessioni.
Mezzi e elementi per assemblare l’apparecchio scrivente, da gran tempo erano sotto gli occhi tutti. Ma per inventare una autentica “macchina dattilografica”, che sostituisse definitivamente la scrittura manuale, che “battesse” caratteri e spazi sempre uguali, sembra si fece ricorso a chi occhi non aveva. Perché? Ho una mia teoria.
Nella mentalità popolare o colta dei quattro secoli che separarono stampa col torchio e macchina da scrivere, la scrittura “privata” era inconcepibile, separata dalla calligrafia: essa doveva far godere l’occhio e la mente, insieme, ed essere nel contempo inconfondibile e distintiva come un marchio. Sia negli epistolari, sia nella corrispondenza commerciale, sia nella confezione di sentenze o nella redazione di diplomi e attestati, l’impronta “umana” era garanzia di sincerità e di serietà. Ci insegnano le detectives stories: se un presunto suicida scrive a macchina la lettera d’addio al mondo e alla vita, la polizia già sospetta un delitto, una messinscena.
Tutto, in passato, doveva essere riconducibile a un pugno, a una persona, a un’intelligenza, a un ordine, una volontà precisa. Visto che da tali atti poteva dipendere la vita e la fortuna di un uomo o di una donna, non si tollerava una forma “impersonale” di comunicazione o di archiviazione. Anche la svista ortografica aveva un nome e un cognome. L’errore cieco non era ammesso. Ogni atto scritto aveva una sua natura “notarile”.
Per questa ragione, credo, ancora alla fine del Secolo passato i certificati più importanti (matrimonio, laurea, nascita, ecc.), in molti paesi – compreso il mio – nelle parti mutevoli erano scritti a mano, con svolazzante calligrafia ottocentesca. Ciò che, appunto, ai non vedenti è stato sempre precluso, fino all’avvento delle macchine: lasciare, di proprio pugno, un segno d’inchiostro intellegibile.
Venne poi l’era dei computer e della posta elettronica a spazzare via qualsiasi diletto “individuale” e primitivo nella scrittura. Il che ci rende spesso incapaci di riprendere in mano una penna senza sbagliare, collezionando errori talmente elementari da farci arrossire.
Persino la “firma”, adesso, è diventata “digitale”, spossessandoci di quest’ultimo presidio, di questo briciolo, superstite, di vanità e d’invenzione “personale”.