I due assassini d’origine irlandese William Burke e William Hare, attivi all’inizio del XIX secolo, divennero figure talmente popolari ai loro tempi che si coniarono per loro dei neologismi che irruppero nel gergo popolare: per esempio divenne dialettale il verbo “to burke”, che voleva dire “soffocare comprimendo petto e gola delle vittime”. Questi due lerci criminali si nascondevano nei vicoli bui di Edimburgo, stordivano e poi asfissiavano i passanti non per rapina, ma allo scopo principale di venderne i corpi a chirurghi scevri di scrupoli. Ai loro tempi, la legge proibiva la dissezione dei cadaveri, così che gli scienziati dovevano rivolgersi al mercato nero. La domanda superò l’offerta e Burke e Hare cominciarono a “fabbricare morti” appositamente per i medici.
Arrestati dopo sedici omicidi, il solo Burke finì sulla forca. Hare, in cambio dell’impunità, consegnò l’amico ai giudici, confessando tutti i comuni misfatti.
Ironia della sorte, il corpo del celebre “cacciatore di cadaveri”, appena giustiziato, fu prontamente messo a disposizione d’un anatomista; per cui si può dire che Burke abbia infine consegnato a un medico, com’era solito fare, l’ultima vittima delle proprie nefandezze: cioè se stesso. E questa volta, per generosità, gratuitamente. Invece che con l’inchiostro, l’anatomopatologo vergò col sangue dell’uomo appena sezionato il suo referto finale. Il verbale del medico, come lo scheletro di William Burke, sono tuttora visibili in un Museo – invero alquanto macabro.
Robert Louis Stevenson, scrittore meraviglioso, si ispirò a questi due ribaldi per il suo racconto “The Body Snatcher” (1884). Ma prima di Stevenson (e di Borges, il quale a suo modo li celebrò nella Storia Universale dell’Infamia), fu De Quincey che si appassionò al loro caso. Risalì ai precursori di Burke e Hare; studiandoli, però, si accorse d’un fatto tanto innegabile quanto trascurato: e cioè che i traffici illegali di cadaveri non si limitano all’approdo sui tavoli degli anatomisti, ma proseguono almeno fino al camposanto, o viceversa. Sono viaggi “andata & ritorno”, andirivieni. E possono, a questo punto, aggrovigliarsi in un circolo vizioso – nel quale i ruoli di committente e esecutore si confondono.
De Quincey scopre nella raccolta di epigrammi greci del bizantino Planude una storia “davvero affascinante”, “una piccola gemma perfetta”. Lo attrae il caso d’un medico che aveva stretto amicizia con un pollinctor – un piccolo impresario, si direbbe oggi, di pompe funebri, cioè “una persona incaricata di comporre e preparare i cadaveri per la sepoltura”.
Tra i due intercorre una scrittura privata: con essa il cerusico, per sé e per i suoi cessionari, s’impegna “puntualmente e fedelmente ad uccidere tutti i pazienti affidati alle sue cure: ma perché?”. Qui – ci ragguaglia l’ispirato De Quincey – sta la bellezza del caso: scopo del patto è che all’amico che gestisce le pompe funebri non manchi mai la “materia prima” del suo mestiere: cioè cadaveri freschi, da seppellire.
Da parte sua, come contropartita, l’affarista dei funerali s’impegna a garantire al medico assassino un flusso continuo di fasce e garze, utili per comprimere “le ferite di quelli sotto le sue cure”. Ma come ne ottiene la maggior parte? Spogliando e sfasciando i morti che giungono nel suo laboratorio, compresi, quindi, quelli uccisi dal sanitario stesso. Indispensabili, per mettere in moto il circolo vizioso, sono dunque le preziose fasciature – chissà quanto dovevano costare, in sesterzi, all’epoca –, mentre i morti assassinati fanno solo da propellente in questo gioco, e da fungibili comparse, come “bambole” o fantocci da vestire, spogliare, rivestire e gettare via.
«Ora – conclude De Quincey –, il caso è chiaro: tutto si fondava su un principio di reciprocità grazie al quale il traffico avrebbe potuto proseguire all’infinito […]. Il medico raccomandava invariabilmente il suo inestimabile amico pollinctor (che chiameremo impresario funebre); l’impresario funebre, con altrettale ossequio ai sacri doveri dell’amicizia, raccomandava regolarmente il medico. Come Pilade e Oreste, essi erano esempi di perfetta amicizia: in vita li legava grande affetto: sulla forca, è da sperare, non vennero divisi».
Commessi al principio dell’Ottocento, i delitti di Burke e Hare, compiuti per favorire il guadagno di un chirurgo, sono crimini senza sentimento, dettati da indigenze sordide e sinistre, incentivati dalla spropositata offerta metropolitana di vittime designate: i passanti che infestano le grandi arterie cittadine. Gli anatomisti chiudevano volentieri un occhio se una coppia di ubriachi si presentava da loro nascondendo un cadavere in un sacco. Nel passato, invece, nella purezza dell’età classica, gli assassini erano i chirurghi stessi, e l’ideal-tipo del rapporto committenti-esecutori, non era economico: era l’Amicizia, la Reciprocità.
[NOTA SULLE FONTI DELL’ANEDDOTO: De Quincey specifica di non aver citato direttamente l’epigramma (attribuito al greco Lucillio nella raccolta del monaco bizantino Planude: vedi Græcorum epigrammatum anthologia, Lipsiæ : impensis Philippi Fuhrmanni, 1661) – ma di aver utilizzato il riassunto latino di Salmasio, nelle note apposte da questo studioso all’opera dello storico Vopisco. Ed effettivamente leggo, in queste ultime “Est & elegans epigramma Lucillij […], ubi medicus & pollinctor de compacto sic egerunt, ut medicus ægros omnes curæ suæ commissos occideretm & pollinctori amico traderet polligendos: pollinctor vicissim telamônas quos furabatar de pollinctione mortuorum, medico mitteret dono ad alleganda vulnera eorum quos curabat…” (Claudius Salmasius in Flavium Vopiscum Notæ, 348, b: in Historiæ Augustæ Scriptores – VI, Claudius Salmasius ex veteribus libris recensuit… , Parisiis, 1620)]