I- Ci sono libri anche belli, anche capolavori, scritti soprattutto ai nostri giorni, che una volta pubblicati non vengono letti proprio da nessuno. Gli amici e i parenti si complimentano con gli autori o con le autrici, ma in realtà, ricevuta in dono una copia del libro, l’hanno abbandonato assai prima della fine, forse appena dopo poche pagine, due o tre. Anche il recensore di professione, di solito, si fida del proprio intuito, e scorre le fatiche letterarie che gli propongono gli editori a occhiate rapide, a flash discontinui: oppure, e non è affatto raro, affida subito i volumi freschi di stampa alla pietà delle bancarelle, senza averli neanche sfogliati. Schopenhauer diceva d’un testo che gli era stato recapitato: “Sono incerto se leggerlo o scriverne una recensione”: in che è tutto dire.
Ci sono poi casi, addirittura, nei quali un libro interessante non è stato letto nemmeno dal suo autore, o dall’autrice. A tale tipologia appartengono certe opere letterarie ricevute per ispirazione arcana, spesso tramite Scrittura Automatica. Una di queste è riassunta nella Visione di William Butler Yeats: gli spiriti la dettarono alla moglie del poeta in transe.
Non sempre gli autori di questi Libri, recepiti in stato sonnambolico, hanno desiderato consultare il risultato finale delle loro crisi “creative”. La schizofrenica italiana Gianna Schiavetti, per esempio, si rifiutò decisamente di leggere il libro che aveva scritto il proprio Altro Io “perché, narrando questo la sua vita, pensava che fosse troppo triste”; qualcuno al suo posto lo mandò alle stampe e conobbe una discreta diffusione. Recava il titolo: “La Schizofrenia non esiste e se esistesse io vorrei averla”.
C’è stato un tempo, però, non tanto lontano da noi, nel quale tutti gli autori erano sicuri di avere almeno un lettore; e non un lettore qualsiasi ma un compulsatore minuzioso che leggeva, rileggeva integralmente, approfondiva l’opera loro fino all’ultima riga, prima, o dopo la pubblicazione – e questi era il Censore: l’uomo (perché di sicuro era mestiere solo virile) deputato a biasimare e a sforbiciare i loro libri.
La Censura vigilava sulla moralità e le idee politiche dei testi scritti o delle rappresentazioni teatrali e cinematografiche, studiando fino a che punto fossero conformi a leggi scritte e soprattutto non scritte; il tutto a protezione, si diceva, dell’opinione pubblica – opinione che, guarda caso, coincideva sempre con quella del Potere. E pure i benpensanti, grazie a questa figura alleata e complice, esercitavano una forma di tirannia sull’ingegno umano.
I mezzi per dissuadere gli autori a pubblicare erano e sono molteplici. I censori, bisogna ammetterlo, in tutti i climi sono dotati di una certa fantasia, quando si tratta di reprimere le idee, o il talento, ma di solito amano ricorrere alla brutalità; anche nelle democrazie occidentali, l’Ufficio di Censura ha sempre contato su un braccio armato: la gendarmeria, gli sbirri, la polizia politica o la buoncostume. E sotto le dittature, i torturatori, i vessatori, i delatori, sono stati sempre in esubero: non c’è mai stato bisogno di blandirli, accorrono come volontari.
II- Accadeva (accade ancora) poi anche questo: che la Censura intervenisse preventivamente, in special modo sulla satira, quando annusava aria di tempesta.
Il primo romanzo dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt, “En 18..”, – opera “imperfetta”, secondo il loro stesso giudizio, e “aborto mal riuscito di scrittura”, secondo la critica successiva – era stato appena annunciato, ché la polizia s’accanì sul libro, strappando persino i manifesti che ne pubblicizzavano l’uscita. Così si legge nel prezioso dizionario di Albani, della Bella e Buonarroti, Forse Queneau.
Era il dicembre 1851, vigilia del colpo di stato di Napoleone il Piccolo, ma il libro non parlava assolutamente di politica: d’amore e (in modo velato), di lupanari, invece.
Pare che questa furia censoria fosse ingenerata solo dal titolo del romanzo: non si sapeva ancora a cosa alludesse, e ciò bastava a renderlo sospetto. Scottati dall’esperienza, i due fratelli usarono le copie già stampate come combustibile per il riscaldamento di casa loro, mandando avanti la stufa, in questo modo autarchico, per tutto l’inverno.
Cosa può aver tanto infastidito la Censura, in questo titolo: “Nel 18..?. Immagino, i “puntini sospensivi”. Si parla del futuro? Non è il caso di suscitare in qualche animo surriscaldato, fallaci aspettative. Del passato? Assai pericoloso, se il concetto nascosto fosse stato, che si viveva meglio. In quanto al presente, era assurdo, e quindi oltraggioso o provocatorio, esprimerlo in quella forma allusiva.
III- L’abilità e la malizia del Censore consiste di norma nel non lasciar transitare neanche un manoscritto, o dattiloscritto, nel proprio ufficio, senza imporre qualche modifica sostanziosa o qualche taglio drastico: una forma di vandalismo contro l’arte che può essere considerata “autoriale”; infatti, si sa, negli ambienti intellettuali d’altri tempi si riconoscevano certi solerti funzionari, solo dal “marchio” che inferivano sull’opera, emendandola.
Esistevano naturalmente anche dei Manuali a orientare le scelte e la severità dei Revisori. Ne ho in mente uno, che mi sembra perfetto nel suo genere, e che riguarda gli scritti destinati al palcoscenico. Riporta le direttive in materia di censura del governo papalino, a Roma, nell’anno 1842. Le disposizioni del trattato, una volta calate come mannaie su testi e didascalie, non lascerebbero inalterato nessun copione di teatro, dai tempi del carro di Tespi ai nostri.
“Un triplice scopo deve avere la revisione”, troviamo scritto nel Manuale: “1° La religione; 2° La morale; 3° La politica”
«Devono dunque primiereamente escludersi quelle produzioni nelle quali è attaccata la religione sia direttamente, sia indirettamente; ma ciò non basta poiché bisogna guardarsi da quelle produzioni dove velatamente e per indiretto si guida per dir così l’ascoltante a conclusioni irreligiose».
Il profano è portato a credere che il dileggio di altre Fedi antagoniste avrebbe fatto felice, all’epoca, il Santo Seggio dei cattolici. Non è così, tutt’altro:
«Si parla per esempio di false religioni, ma in modo da far vedere che le religioni sieno una briglia de’ governanti per tenere il popolo, o il mezzo d’ingannare la solitudine. Un simile argomento può essere condannato perché indirettamente l’Autore vuol scagliarsi contro la vera religione. Devono anche proscriversi quelle produzioni che discreditano i Ministri della Religione; poché sono altrettanti mezzi di attaccare la Religione stessa. E qui giova avvertire, che convien guardarsi anche da quelle produzioni contro i falsi Sacerdoti dei falsi numi, quando l’allusione è tale da riferirsi anche ai veri Sacerdoti del vero Dio. In questo tutto il criterio dee consistere del Revisore; giacché per prescrivere le produzioni, nelle quali direttamente si parli contro la Religione e suoi Ministri non si avrebbe quasi bisogno di persone intelligenti».
Può succedere che qualche proposizione indirettamente irriguardosa sia sfuggita all’Ufficio della Censura, e che il testo, dunque, sia già in scena, e abbia avuto più repliche: in questo caso “val meglio o lasciar tutto, o non permettere affatto la recita; poiché gli uditori arrivati a quel punto ricordano il passo soppresso, e fa questo più effetto di quello che se fosse recitato”.
Il Capo Revisore richiama i suoi funzionari non solo all’uso dell’acume, quando si vada a sostituire parti di copione sospette, ma all’utilizzo di un frasario di tono genericamente “artistico”, di modo che il rammendo testuale appaia poi invisibile e inavvertibile per il pubblico: il censore, insomma,
“nel fare le correzioni dee farle, o farle fare, in guisa che l’opera non perda e nell’andamento, e nella forza, ed in altro; poché altrimenti verrebbe la correzione a conoscersi ed a rendersi ridicola”.
Gli autori ben intenzionati stiano attenti pure nel citare testualmente la Bibbia, e guai a dar voce al Signore Onnipotente, anche quando parlasse col profeta Mosè sul Monte Sinai: perché qualche spettatore appollaiato nei posti più lontani del loggione, sentendo male, o non sentendo per nulla le battute, potrebbe cominciare a fischiare addirittura Iddio. “Che brutta cosa allora!”
IV- «Passiamo alle produzioni contro il costume» – prosegue il nostro Manuale. «Non bisogna prendere come tali quelle solamente che insegnano scostumatezze, come per esempio la Mandragora; non quelle soltanto laide nell’espressioni e continui equivoci; ma quelle principalmente che sebbene esposte in modo decente trattano temi per se stessi non morali […]. Queste produzioni sono più nocive delle altre, e sono quelle delle quali fatalmente il teatro abbonda essendo gli Autori de’ nostri tempi e gli esteri specialmente poco morali. Sono da evitarsi con premura quelle produzioni, le quali si raggirano sopra amori e confidenze di persone congiunte per vincoli di sangue, o per legami, che renderebbero delittuose le condiscendenze amorose – e ciò sebbene apparisca che si mantengano nei limiti della virtù, poiché pregiudica forse più questo che vederle punite, mentre la gioventù incauta ne ha una persuasione di potersi fidare di se medesima e di poter fare altrettanto, ed alla circostanza cade in impegni che non finiscono nel mondo che male, tranne uno ogni mille.
Anche le espressioni, e motti sporchi ed equivoci devono essere tolti; ma togliere gli sporchi è facile; per gli equivoci si esige molta avvedutezza e pratica del parlare del mondo; poiché spesso avviene che dove meno sembri esservi, nella recita si scoprano equivoci scandalosi, né quali la platea fa plauso. La espressione per esempio innocentissima “Posso servirvi come vuole” ed altre tante possono divenire per le combinazioni delle persone che le pronunziano, o delle circostanze, detti laidissimi».
V- «Finalmente conviene parlare delle produzioni censurabili per la parte politica, e queste possono classificarsi come segue: 1°- Produzione di temi per se stesso politici. 2°- Produzioni, nelle quali si attacca direttamente una forma di governo. 3°- Produzioni colle quali indirettamente si discreditano i governi. 4°- Produzioni nelle quali vi sono parlate ed espressioni allarmanti.
Della prima specie sono per esempio, il Guglielmo Tell, la Muta di Portici, e simili, nelle quali né giova cambiar titolo, né parole, perché il fatto per se medesimo è tale da non permettersi sulle nostre scene […]; e della terza sarebbe per esempio Il Bicchier d’acqua, nella quale produzione, oltre lo scandalo di amoreggiamenti illeciti, si fa vedere al pubblico e si vuole insinuare come nelle Corti a fini utilissimi si sagrifichi il bene dei sudditi, e la vita di migliaia di uomini. Questo è veleno da temersi non meno forse dell’altro perché penetra insensibilmente, e forma quella disistima, colla quale non può essere più congiunto il rispetto. È da guardarsi da questa specie di opere, che oggi con perfido fine sonosi moltiplicate.
Dell’ultima specie sono a nostri tempi moltissime […]; e quanto alle opere infette di questo veleno bisogna vedere se sono espurgabili in guisa che non ne restino guaste; mentre allora il pubblico ne fa chiasso ed è peggiore il rimedio del male. Bisogna evitare anche nel correggere il ridicolo che talvolta s’incorre senza verun utile. Si ricorda un coro ove si dicea “Cantiam la libertà…”, e gli fu sostituita ridicolmente e senza frutto “Cantiam la lealtà…”.
Il censore modello deve quindi essere subdolo, ma non stupido.
VI- Un’altra specialità nella quale si distingueva la Censura: cambiare titolo a libri, testi teatrali e libretti, specialmente se, dato il nome dell’autore, erano destinate a riscuotere un notevole e pericoloso successo, anche presso il popolo minuto.
In questo senso, l’avventura del Ballo in Maschera musicato da Giuseppe Verdi è davvero esemplare.
L’opera era ispirata alle vicende di Gustavo III di Svezia, e raccontava dell’agguato mortale in cui perì quel re, durante, appunto, una festa mascherata. Al principio del 1858 fu sottoposta a più riprese ai Revisori napoletani che la restituirono al mittente imponendo una raffica di tagli e variazioni. Dopo un primo sbrigativo esame, durato pochi giorni, il libretto già si chiamava solo col sottotitolo “Una vendetta in domino”. Il protagonista era stato degradato: da re, a duca, poi a signore. L’epoca nella quale si svolgevano i fatti non era più la vicina fine del Settecento, ma un nebuloso periodo precristiano. La Svezia s’era disciolta, sostituita dall’antica Pomerania (paese di cui nessuno conosceva i confini). Ma soprattutto era scomparso il Ballo, e l’uccisione del più eminente dei pagani avveniva fuori scena.
La censura non era però sufficientemente soddisfatta dai cambiamenti. A febbraio l’opera di Verdi diventò, grazie a un nuovo librettista che sottostò a un poderoso e vergognoso diktat di rimaneggiamenti, Adelia degli Adimari. L’azione veniva prodigiosamente trasferita dalla Pomerania precristiana a Firenze, durante le contese tra Guelfi e Ghibellini, in pieno secolo XIV. Il protagonista era un semplice leader guelfo, una specie di capobanda senza alcuna nobiltà, cui poteva capitare di tutto senza dar scandalo. Del Ballo non c’era traccia.
Verdi si ribellò a questi soprusi e tolse l’opera dal cartellone del San Carlo di Napoli. Ma decidendo il musicista di farla esordire a Roma, il libretto originario di “Gustavo III” fu sottoposto a una nuova revisione di censura, stavolta a cura degli uffici papalini (gli stessi che avevano prodotto il Manuale sopra illustrato).
Di modo che il re fu spodestato di nuovo: già divenuto duca divenne poi definitivamente conte, titolo che gli è rimasto. I fatti accadevano a Boston, nel XVI secolo – luogo di recente immigrazione protestante, e decisamente più lontano dalla Svezia della Pomerania. Ma soprattutto si riuscì non si sa come (forse solo per far sgarbo ai colleghi napoletani) a salvare il Ballo nel quale il protagonista veniva ucciso: quel Ballo in Maschera che poi è rimasto, ancora oggi, nel titolo.
VII- Gli esempi precedenti, è vero, sono antichi: ma la Logica della Repressione delle idee, e della creatività, è rimasta da secoli la stessa. Chi ha fatto sequestrare e poi bruciare il film di Bernardo Bertolucci, Ultimo tango a Parigi, non 150 anni fa, ma solo 50 anni fa, non ragionava tanto diversamente dal funzionario papalino del 1842. La pellicola fu data alle fiamme perché mostrava, secondo gli incendiari, un “Esasperato pansessualismo fine a se stesso“.
Credo allora sia giusto sforzarsi di comprendere la “logica della Censura” e il suo sviluppo velenoso – anche e soprattutto oggi, giorno in cui si celebra, come valore assoluto, l’intoccabile “libertà di stampa”.
È l’occasione per ricordare a tutti, che questa libertà viene calpestata dovunque intorno a noi, anche in paesi che hanno raggiunto gradi notevoli di civiltà o di civilizzazione. E nella nostra stessa nazione (dove troppo spesso vige, tra i giornalisti e gli organi di stampa, l’autocensura) è necessario riaffermare che questo valore non si conserva da solo e per sempre, ma bisogna ancora combattere ogni giorno, per mantenerlo in vita.