I- In Et ab hic et ab hoc (vol. XI) l’emerito precursore della nostra Fantaenciclopedia Americo Scarlatti, definisce “Bibliolitìa” o “Biblioclastìa” la “distruzione volontaria di opere, fatta da persone interessate a sopprimerle, o dalla Giustizia, o dalla Chiesa o dagli stessi editori e persino dagli stessi autori”.
Questa infocata biblioteconomia fu disciplinata e resa sistematica, per la prima volta, dal francese Fernand Drujon, autore di un Essai bibliographique sur la destruction volontaire des livres, ou Bibliolytie.
Ci sono poeti, scienziati e letterati che, in mezzo alla loro vita, o sentendosi prossimi a morire, oppure procurandosi essi stessi di farlo, appiccano fuochi ai loro manoscritti. Altri, invitano amici ed esecutori testamentari a bruciare le loro ultime fatiche letterarie, al posto loro. Perché lo fanno? Per vanità o per disperazione vera? O per che altro?
Kleist, in stato confusionale, bruciò la prima versione del suo “Roberto il Guiscardo”. Gogol, ormai giunto alla fine dei suoi giorni, ordinò al suo servo di alimentare la stufa con il manoscritto dell’ultima parte de Le anime morte. L’incartamento fu divorato dalle fiamme. Il giorno successivo Gogol affermò con gli amici, che il gesto gli era stato “suggerito dal Maligno”. Secondo Canetti, gettando il plico nel fuoco, vi gettò se stesso e sopravvisse “come cenere”. Esattamente all’opposto di Gogol, lo scienziato “Ampère abbruciò un trattato sull’Avvenire della chimica, credendo averlo scritto per suggestione satanica”: almeno così sostiene Lombroso in L’Uomo di Genio in rapporto alla Psichiatria, alla Storia ed all’Estetica. Charles Hoy Fort, a detta di Pauwels e Bergier, due suoi ammiratori e seguaci, consegnò alle fiamme le scatole e le schede del suo mostruoso archivio di fatti “inusitati”: ci aveva messo una vita a collezionarlo. Moltissimi poeti e scrittori suicidi hanno posto fine, contemporaneamente, ai loro giorni e alle loro opere mai pubblicate. Ultimo sforzo di volontà, mentre soggiacciono a una divorante e palese depressione, sbranano i propri “figli” in una strage di sapore mitologico. Il Tempo che sfugge loro, li fa agire come Crono. Kafka, – lo ricorda Bataille ne La Letteratura e il Male (p. 137) – “visse, o almeno morì, tormentato dal desiderio di bruciare i suoi libri” e “poco prima di morire, espresse questa volontà, apparentemente decisiva: bisognava dare alle fiamme ciò che lasciava”. Fu per fortuna tradito dagli amici, come racconta uno di essi, il suo biografo Max Brod. Già Virgilio, dice Svetonio, aveva pregato Vario che, se fosse venuto a mancare, incenerisse l’Eneide, “ma questi aveva dichiarato che non l’avrebbe mai fatto”. Svetonio riferisce che il poeta Sulpicio, con cattivi versi, inneggiò a questa saggia decisione dell’amico, poetando: “e quasi arse di nuovo Troia in un secondo rogo”.
Sembrano esserci capolavori scritti solo per finire in cenere, e il falò li attira come fossero falene. Opere estreme che solo le fiamme riescono a leggere e, mentre lo fanno, ne purgano le pagine da chissà quale crimine dell’Ispirazione. Mallarmé – ci avvisa Italo Calvino –, pare “abbia dedicato gli ultimi anni della sua vita al progetto d’un libro assoluto come fine ultimo dell’universo, misterioso lavoro di cui egli ha distrutto ogni traccia”. A riprova che: il libro “Infinito” finisce infinitamente nel fuoco.
II- Ingenera però una certa confusione mescolare classi così distinte, e porre sullo stesso piano l’Autore pentito, o dubbioso dei propri risultati, e il boja illetterato che, senza aver mai scritto o sfogliato un libro, senza aver neppure consultato di persona l’Index librorum prohibitorum, li mette al rogo tutti indistintamente – purché glielo ordini l’Autorità –, oppure ancora il fanatico incivile che progetta e esegue spettacoli pirotecnici facendo scempio e falò di qualsiasi esempio di cultura avversa.
Bruciare libri è un non-senso per gli analfabeti, eppure tutte le volte che la Storia, imbarbarendo, ha acceso roghi di opere a stampa e no, essi erano in prima fila, leticandosi queste piccole prede indifese con gli intellettuali, che volevano bruciarle per primi. L’odio per i libri “divergenti” ha contaminato anche le menti più illuminate, ottenebrandole: classico, l’esempio di Platone, che secondo Aristosseno, “ebbe l’intenzione di bruciare tutte le opere di Democrito che poté raccogliere”.
Esattamente come ogni Potere (o Sapere) incartapecorito, all’opposto anche ogni Rivoluzione “futurista” ha i suoi libri da bruciare. Alcune Avanguardie, tra loro, si sono spinte fino a desiderare di bruciarli tutti. Tanto grave è il fardello del passato, che, dubitando di riuscire a riscattarlo, si preferisce “abolirlo”.
Racconta uno stizzito Samuel Johnson, che “in uno dei parlamenti convocati da Cromwell fu seriamente proposto che venissero bruciati tutti i Documenti archiviati nella Torre [di Londra], che ogni memoria delle cose passate venisse cancellata, e che l’intero sistema di vita dovesse ricominciare di bel nuovo”.
Nel VII secolo (era volgare), i volumi della ricostruita Biblioteca di Alessandria – già vittima di quattro incendi devastanti – furono nuovamente inceneriti dalle orde dei Biblioclasti. Tutti i Libri bruciarono, si disse, alimentando i “bagni turchi” della città nell’arco di sei mesi. Il sapere distillato in più di un millennio da Oriente e Occidente fu vaporizzato per il benessere di corpi che sarebbero durati, al massimo, meno di cent’anni, e per sudori evanescenti che nessuna memoria avrebbe trattenuto.
Gibbon ne racconta la ragione: quando il grammatico Filopono osò chiedere la Biblioteca, come dono, ai vincitori musulmani che fino a quel momento l’avevano ignorata, il comandante, generale Amr, benché bendisposto, sentì il dovere di interpellare il Califfo. Costui non diede l’autorizzazione, ma alla richiesta oppose una famosa replica, sentenza di morte per tutto il Sapere antico: “Se gli scritti dei Greci concordano col Corano, sono inutili e non occorre conservarli; se discordano, sono pericolosi e si devono bruciare”. E così fu fatto.
Ovviamente, alla Prova del Fuoco di questa logica non sopravvivrebbe nessun Libro – direi, anzi, nessun foglio scritto. E, ancor più probabilmente, nessuna immaginazione umana supererebbe un simile collaudo.
III- Si potrebbe continuare all’infinito, tra esempi classici di “Biblioclastìa”, oppure dozzinali. Il numero e la qualità dei libri periti tra le fiamme in virtù dell’operato dei boja, degli inquisitori, dei tiranni, dei censori, dei critici professionisti, dei facinorosi, è tale, che nessuna Enciclopedia potrà mai darne conto per intero, pena l’inedia del lettore.
C’è un caso, però, che si ha il dovere di riferire: un evento che riassume e supera ogni altro spaventoso “Pogrom contro i Libri” o “Autodafé libresco” tramato in precedenza dalla Storia: l’Editto di Shih Huang Ti, assoluto e inarrivabile campione dei Biblioclasti.
Shih Huang Ti – la grafia occidentale è incerta – , è il famoso “Primo Imperatore” dei Cinesi ricordato da Hegel nella sua Filosofia della Storia, e immortalato da Borges per le sue due imprese parallele: “l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese” e l’editto con cui dispose “che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui”. La prova che queste due opere titaniche, all’apparenza estranee, fossero effettivamente correlate, viene fornita a Borges dal sinologo Herbert Allen Giles: chi aveva nascosto un libro, e poi veniva scoperto dagli sgherri dell’imperatore, subito veniva spedito ai lavori forzati nell’immenso cantiere della muraglia. In esso languivano quattro milioni di operai. Secondo Rosa Luxemburg (L’accumulazione del Capitale, I, 1), ne morirono quattrocentomila; altre fonti, portano il computo delle vittime a due milioni. Naturalmente, la stragrande maggioranza era analfabeta.
La storia del popolo cinese contava più di tremila anni: il Primo Imperatore ordinò che cominciasse con lui. Borges ritiene che il rogo dei libri avesse per Shih Huang Ti un significato preciso: eliminare dal Tempo (dal Passato) l’infamia di cui si era macchiata sua madre, donna di costumi indegni. Il Signore della Cina aveva in sospetto e in odio le finzioni della letteratura, che potevano nascondere sotto altri nomi, o ironiche allusioni, le vicende sgradite della sua famiglia. Novello Erode, decretò allora una Strage di Pagine Innocenti.
Scrive ancora Borges, che tanto elevato fu il numero dei letterati che vennero “giustiziati per aver disobbedito agli ordini imperiali, che in inverno crebbero meloni nel luogo dove li avevano seppelliti”.
La distruzione di ogni pagina scritta fu decretata dall’Imperatore in una data incerta, collocabile a metà del terzo secolo prima dell’era volgare. Una donna – racconta Feuillet de Conches – fortunatamente, disobbedì all’editto: grazie alla sua insubordinazione, occidentali e orientali godono ancora della lettura di Confucio.
Contemporaneamente ai roghi divoratori di Libri, Shih Huang Ti fece erigere la Muraglia, e il suo palazzo, dotato di “tante stanze quanti giorni c’è nell’anno”. Costruzioni che significavano per lui “una protezione dalla morte; come l’elisir dell’immortalità che a lungo, questo imperatore, cercò”.
Encyclopédiana ricorda che Shih Huang Ti, o Che-Hoang-Ti, mosso dal “proposito di abolire la Memoria dei suoi predecessori, ordinò di abbrustolire tutti i libri che si trovavano nei suoi territori, ad eccezione di quelli che trattavano di medicina, agricoltura e divinazione”. Il crudele imperatore li risparmiò, probabilmente, perché erano utili alla sua ricerca della Vita Eterna.
Duecento anni dopo l’editto di Huang Ti, un Imperatore più tollerante consentì che i libri fino allora celati tornassero alla luce. Ne erano stati nascosti a centinaia.
La donna confuciana non fu l’unica, evidentemente, a ribellarsi.
L’impresa biblioclasta, impareggiabile, di Shih Huang Ti, ebbe anche sofistici estimatori. Naturalmente, tra gli scribi e gli intellettuali. Secondo Lezama Lima, quel tiranno non fece altro che istituire “la prova massima che devono subire i libri veramente classici. Essi furono bruciati, ma il loro spirito sopravvisse”.
[dalla Fantaenciclopedia]
[in copertina: un fotogramma di “Fahrenheit 451”, film di François Truffaut (1966)]