I- L’8 dicembre 1980 un assassino attese che John Lennon uscisse dal palazzo nel quale abitava, a Manhattan, e gli chiese un autografo sulla copertina di un suo disco. Poi lo aspettò per altre quattro ore senza muoversi di lì e al rientro in casa dell’artista – che era accanto alla moglie Yoko Ono – gli sparò contro cinque colpi di revolver. Uno traforò l’aorta di John Lennon, e lo uccise. L’assassino non provò neppure a fuggire: rimase sul posto e si mise a leggere, imperturbabile, il romanzo Il giovane Holden di Salinger, finché non arrivò la polizia a arrestarlo. Non fece resistenza.
Quando era già detenuto da vent’anni, gli chiesero il movente del suo barbaro delitto, e l’omicida spiegò: “mi era sembrato l’unico modo per liberarmi dalla depressione cosmica che mi avvolgeva. Ero una totale nullità e il mio unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo, Lennon”.
Negli Stati Uniti, lo dico con raccapriccio, quasi tutti possono girare, oggi come allora, con un’arma carica in tasca. E tutti, e con ogni mezzo, possono andare in cerca del “quarto d’ora di notorietà” che secondo Andy Wharol gli spetta o incombe su di loro. In questo caso, certo, l’assassino mirò più in alto.
Quarant’anni dopo l’attentato, e sempre dal carcere, l’omicida si rivolse a Yoko Ono chiedendole perdono per il suo gesto “spregevole”, e ribadendo che era ricorso a un attentato per rubare la Fama del marito, che invidiava.
Perciò trovo abominevole che le cronache ancora mantengano in vita il suo nome, dandogli ragione: ha ottenuto il suo scopo, ha anche un bell’articolo su Wikipedia.
Il 30 dicembre 1999 un altro ex-Beatles, George Harrison, restò vittima d’un tentativo di omicidio. Un “folle” si introdusse in casa sua in Inghilterra e lo pugnalò più volte al torace. Ebbe anche lui il suo momento di gloria. Forse non si trattava tanto di uno squilibrato, quanto d’un altro famelico di Fama, che aveva appreso la lezione, contagiosa, del suo predecessore.
II- Pausania, racconta Valerio Massimo, chiese a Ermocle in che modo potesse, lui, diventare famoso. Questi gli rispose: uccidendo un uomo illustre. Allora Pausania, “senza por tempo in mezzo”, uccise Filippo re di Macedonia, “e ottenne senz’altro quel che aveva desiderato: giacché si rese tanto noto ai posteri per il suo parricidio, quanto Filippo lo fu per il suo valore”.
Allo stesso modo il Varchi, scrittore del XVI secolo, attribuiva l’eliminazione del duca Alessandro de’ Medici da parte del “famoso” Lorenzino o Lorenzaccio, alla smodata “sete di gloria” del suo assassino.
Nell’antica Efeso, fu scritto che il nome di colui che aveva incendiato il tempio di Diana, non fosse mai più pronunciato: perché proprio questo, il desiderio di una fama immortale in quanto piromane, aveva spinto il furbacchione ad appiccare le fiamme a quel luogo sacro. Preso, egli finì per confessare il suo movente, sotto tortura. Ancora Valerio Massimo commenta: “bene avevano deciso gli Efesii, cancellando con apposito decreto il ricordo di quell’uomo ignobile”, e l’oblio sarebbe stato garantito, “se l’esuberante Teopompo non gli avesse trovato posto nelle sue Storie“. È però lecito un sospetto: e se Teopompo, per evitare che il nome vero, prima o poi, venisse diffuso, si fosse preso la responsabilità di tramandarne uno falso, inventato: “Erostrato”?
Non è meglio, di fronte a persone come queste, i killer seriali o no disposti a tutto pur di essere “immortalati”, punirli con un nauseabondo anonimato, con le sole iniziali inconcludenti, o con denigratorie e fittizie generalità?
In tal modo, sottile e astuto, fu condannato il malvagio re dei Traci che volle sottrarsi alla guerra contro i persiani di Serse. Poiché i suoi sei figli avevano disobbedito ai suoi ordini, ed avevano combattuto nelle file dei Greci, egli li accecò. I Greci, allora, registrarono questa cronaca, con Erodoto prima e poi – tra gli altri – con Eliano, ma gli storici si rifiutarono di tramandare il suo nome ai posteri. Così gli fu riservato un trattamento che neppure il peggiore dei tiranni aveva mai meritato.
III- Parlando della Fama, non posso non citare questa stupenda pagina di Giovanni Macchia:
«La gloria, per gli antichi, per Esiodo, era una dea. Ma già in Virgilio, sotto il nome della Fama, quella dea cominciava a prendere aspetti paurosi. È un orrido mostro che possiede tanti vigili occhi, tante lingue e orecchie quante piume ha sul corpo. E vola di notte stridendo nell’ombra, chiude palpebra al sonno, e tenacemente annunzia il falso e il vero. Per i moralisti antichi, l’amore della gloria, sorella dell’ambizione, tra corone, tiare, scettri, fasci, spingeva gli uomini ai più ridicoli eccessi. Un re della Libia, Pfasone, ammaestrava gli uccelli nel dire: “Pfasone è un Dio”, e li lasciava andare in un bosco, ove veniva venerato. Un altro re, Eraclide, si fece uccidere dopo aver disposto che un drago fosse messo nella sua tomba, perché tutti credessero che il suo corpo era volato in cielo».
Peregrino, detto anche Proteo, eccentrico filosofo che s’era votato alla fede in Cristo, a detta di Luciano di Samosata che fu testimone della sua morte, s’uccise per vanità, e saltò su un rogo acceso perché tutti parlassero di lui.
E per quanto possa sembrare inverosimile, e comunque mostruoso, il gerarca nazista Goebbels pensò soprattutto alla sua fama personale, quando si uccise nel bunker berlinese di Hitler. Per questo costrinse sua moglie e i suoi figli a morire con lui. L’architetto Speer, raccolse da Goebbels questa testimonianza agghiacciante: “Mia moglie e i miei figli non devono sopravvivermi. Gli Americani li addestrerebbero soltanto a fare propaganda contro di me“.
IV- Un’apologia del Marchese de Sade, “due volte condannato alla tortura e la seconda volta, vivo, ad avere le articolazioni spezzate”, si trova nell’ eterogeneo volume Diavoli in Amore, firmato – credo per improrogabili esigenze alimentari – da Guillaume Apollinaire.
Il “divino marchese” incorse nei rigori della Giustizia, tra l’altro, per aver “colpito con numerosi colpi di coltello una donna che aveva fatto denudare e legare a un albero e […] aver versato sulle ferite aperte cera da sigillo bollente”.
Louis Ange Pitou, lealista e controrivoluzionario, riteneva che Sade, “autore dell’opera più esecrabile che la perversità umana abbia mai escogitato”, avesse osato ogni abominio e ogni oscenità, non per vero spirito sovvertitore, né per vero scandalo, ma per ottenere una fama imperitura e immeritata.
Pitou racconta d’aver incontrato il pingue e ossequioso marchese, in carcere, nel 1802-3:
«Questo miserabile era a tal punto contagiato dalla lebbra dei più inconcepibili delitti che la giustizia non l’aveva neppure ritenuto degno della morte, considerandolo inferiore persino alle bestie e mettendolo nel numero dei maniaci: non volendo macchiare i suoi archivi con il nome di quest’uomo né permettere che il carnefice gli procurasse quella celebrità di cui era così avido, l’aveva relegato in un angolo della prigione, dando a ogni detenuto il permesso di sbarazzarla di quel fardello. […] Talvolta piangeva, esclamando, in un inizio di pentimento che restava senza seguito: “Ma perché sono così laido e perché il delitto è così bello? Bisogna farlo regnare nel mondo, dal momento che mi rende immortale“».
Il libertino si specchiava insomma compiaciuto, da narciso, in ogni crimine, come fosse opera sua, e concorresse a esaltare la sua immagine. Un’immagine che doveva essere sempiterna e giovane, quasi l’efferatezza altrui, e la fantasticheria propria, la rinverdissero. Sade sarebbe stato dunque un Vampiro, una sanguinaria Batori, della Fama. Almeno, così, secondo i nemici, allarmati dalla sua Popolarità.