Enzo Biagi è stato un maestro di questa nostra bistrattata lingua italiana, che ha avuto il dono, scrivendo, di divertire e far riflettere. Fulminanti, i suoi epiteti lasciavano un segno indelebile che i lettori non riuscivano poi più a dissociare dal personaggio ritratto – o castigato – in poche righe: come quel politico “dalla fronte inutilmente spaziosa”, che dopo i suoi strali passò presto nel quasi anonimato.
Considerato come giornalista televisivo, non aveva rivali. Certo è stato il più grande. Le sue ricette, i suoi insegnamenti erano semplici. “Per fare buona televisione basta una faccia, una telecamera”, diceva – negli anni in cui altri giornalisti provavano a rifare il cinema in TV, manipolando la realtà per renderla più simile a un “film luce” che alla vita vera.
Enzo Biagi, durante le riunioni di redazione, per Spot, il Caso, Linea Diretta, dettava i suoi copioni televisivi senza interruzioni, senza ripensamenti: poche righe di presentazione, poi una domanda dietro l’altra; ed erano lezioni continue, illuminanti per tutti. Coglieva l’essenziale, ma le sue domande – pochi vocaboli – non erano mai aride o scheletriche. Era il suo modo di partecipare vivamente alle vite altrui, di raccontare la grande Storia o le piccole esistenze dei suoi contemporanei. Gli intervistati s’accorgevano subito che di fronte a quelle domande scarne non c’era scampo, che dovevano dare il meglio di loro stessi, rivelarsi, aprirsi. Raccontarsi, finalmente. Molti, dopo questi incontri, gli restarono riconoscenti e amici per tutta la vita.
Quando invece scriveva i suoi pezzi per i giornali, non dettava, ma impugnava in silenzio, chiuso nella sua stanza, una penna antica da cui faceva scaturire una prosa nitida, severa, lucida e brillante come quella di Voltaire. (Naturalmente, lui, non avrebbe mai perdonato i quattro aggettivi consecutivi).
Come a Voltaire, gli capitava di ripetersi. E i suoi critici non hanno perso l’occasione di rimproverarglielo. Succede, però, di ripetersi, soprattutto quando si ha veramente qualcosa da dire. Capita, quando si cerca, più che l’originalità, la verità, la vita.
Per l’acume e per lo spirito però, Biagi non era un Voltaire; forse era più affine a un altro letterato e moralista: de Chamfort.
Chamfort ha scritto: “Lo storico un giorno otterrà fama d’autore satirico”. Il destino di Enzo Biagi, mi pare inverso: un giorno rileggeremo i suoi libri più sferzanti, le sue prose più acide, umoristiche e stringate, come veri testi di storia contemporanea.
Ho lavorato con lui per dieci anni: prima come inviato, poi, insieme a Franco Iseppi, come curatore del Caso e di Linea Diretta, poi come amico rispettoso, preparatore delle sue trasferte e interviste romane, quindi come capostruttura di Processo al Processo. Ho osato cose, a quei tempi, che adesso mi stupiscono, davvero buffe: come quando presi “in ostaggio” nel suo stesso ufficio – si fa per dire – il Presidente Amato, responsabile di tutte le carceri italiane, perché autorizzasse l’intervista di Biagi a Sindona. Dopo tre ore, mentre Biagi urlava alla cornetta del telefono, il presidente concesse finalmente il sospirato permesso.
Ci sono tanti episodi, su mille, che subito mi vengono alla mente, e che rivelano fino a che punto Biagi fu un maestro.
A Pianaccio, prima edizione di “Linea Diretta”, estate 1985, festa conclusiva: c’erano, per fare solo alcuni nomi, Claudia d’Angelo, Lamberto Sposini, Vincenzo Mollica, Sandro Vannucci, Daniele Valentini, Nando Spasiano. Biagi disse a noi giovani giornalisti cose che non si dimenticano: “Con questo mestiere, voi potete cambiare il mondo”. Non ci avevo mai pensato. Lo speravo solamente.
Altra mattina indimenticabile: il 16 aprile 1986, a Roma, Palazzo Chigi, il giorno dei missili libici su Lampedusa.
Spadolini in mezzo ai ministri, che sfoglia camminando, preoccupato, l’intervista di Enzo Biagi al Comandante Gheddafi, fatta poche ore prima del bombardamento americano. Un grande scoop di “Spot”, invidiato in tutto il mondo. Un servizio realizzato a velocità supersonica, con una troupe leggerissima diretta da Mario Foglietti. Il regista, Biagi, e Iseppi, decollarono da Tripoli giusto cinque minuti prima che l’aeroporto chiudesse.
Far trasmettere, si, o no, alla Tv di stato questa intervista, diventò per qualche ore la decisione più importante del Consiglio dei Ministri. Alla fine, il governo Craxi e la Rai stabilirono di comune accordo che il colonnello andava punito “in effigie”, come si faceva nei bei tempi andati. Lo scoop eccezionale fu messo in onda, con la massima cautela, solo una settimana dopo.
Ma quel giorno, a Palazzo Chigi, ho assistito a un fatto prodigioso e forse storico. In mezzo al parapiglia di microfoni e telecamere torreggiava il presidente del consiglio Craxi, e un collega anziano, del “politico” del Tg1, che fino allora non si era mai distinto altro che per la sua esagerata prudenza, l’affrontò con cipiglio e con domande semplici e taglienti. Il leader sembrò vacillare. Non se lo aspettava. Ma c’era, credo, una ragione.
Era frutto dell’effetto-Biagi sul resto delle redazioni della Tv pubblica.
Negli anni di ristagno succeduti agli entusiasmi della prima riforma, il ritorno di Biagi alla Rai, con “Linea Diretta”, nel 1985, ha fatto da spartiacque, C’è un giornalismo televisivo prima di “Linea Diretta”, in Italia, e dopo “Linea Diretta”. Persino il collega anziano era stato contagiato da un inatteso rigurgito d’emulazione.
È l’89. Biagi inventa Tangentopoli.
La Democrazia Cristiana aveva attaccato Linea Diretta, nuova edizione, trascinandola sulle prime pagine dei giornali.
Biagi rispose a modo suo: a cannonate. Con la prima inchiesta vera e propria sulla corruzione in casa DC.
Era appena tornato da Parigi, dove aveva intervistato Mitterrand. Era stanchissimo. Chiese un consiglio al suo insostituibile amico e collaboratore Franco Iseppi e anche a me; poi prese due pillole, e disse: facciamolo. Dopo meno di un’ora intervistò Forlani su DC e tangenti, sottoponendolo a un vero e proprio terzo grado. Inaudito. Forlani rispose con ostentata arroganza: ma per la prima volta da quarantacinque anni, qualcuno aveva avuto l’ardire di mettere in graticola il segretario del maggior partito italiano, addirittura sulla rete Tv che quel notabile considerava un suo feudo,
Ancora l’89, primavera. Sono a Milano, nella sede Rai di Corso Sempione. Da uno studio di Roma si collega il Vice Primo Ministro Cinese, per registrare un’intervista che dovrebbe andare in onda su Linea Diretta. Sono i giorni di piazza Tienanmen, prima del massacro. Il membro del governo è venuto a presentare un libro, pubblicato da poco in Italia. Vuole parlare solo di cultura. L’editore ha scongiurato di non chiedergli nulla che riguardi l’attualità. Biagi fa subito le domande che colgono nel segno, che vanno al cuore del problema, che feriscono. Una raffica. Sono tutte su Tienanmen. Visto che il vice-premier non vuole rispondere (o che nessuno ha avuto il coraggio di tradurle), Biagi si alza irritato dalla sedia, che rimane vuota, davanti alla telecamera. Se ne va. Un’altra lezione di giornalismo.
Momenti di panico nello studio romano. L’uomo della Cina è attonito – ma sempre impenetrabile, come si addice a un orientale assurto ai massimi gradi del potere. In quel momento, avviene un miracolo. Una vocina si materializza. È il traduttore, che riprende a fargli domande in mandarino. Sono tutti cortesi quesiti sulla bellezza e l’importanza del suo libro. Lasciano trapelare un’insospettata ammirazione per la cultura, e per la classe dirigente, dei cinesi.
Il vice premier risponde. Risoluto, ma riconoscente, convinto d’essere intervistato da Biagi. Invece: qualcuno, fuori campo, continuava l’intervista al posto suo, perché il ministro non si accorgesse fino in fondo dello “spiacevole incidente”.
Suppongo fosse il capo ufficio stampa della casa editrice. Si era nascosto nello studio tv, dietro un paravento. La situazione era fantastica, da corte imperiale d’Oriente, una vera “cineseria”, ma comicissima. Appena finita la “falsa” registrazione, abbiamo buttato tutto nella spazzatura.
Tra le tante interviste cui ho assistito, il mio ricordo va, alla fine, a una che è svanita, per un soffio.
Non so, ma ho come l’impressione, che la storia d’Italia avrebbe avuto un’altra piega, se Biagi l’avesse realizzata.
Nel ’93, il Direttore doveva intervistare Silvio Berlusconi. Il cavaliere gli aveva promesso, in esclusiva e su Rai Uno, l’annuncio del suo “ingresso in campo” nella politica – oppure, della sua “scesa in campo” (non ricordo i termini precisi, ma solo che l’italiano era approssimativo). Partii per Milano per preparare con lui gli ultimi dettagli di quest’intervista che seguivo ormai da mesi e che sarebbe stata sicuramente memorabile. Biagi aveva rotto con l’editore Berlusconi ai tempi del passaggio di proprietà di “Panorama”. Aveva poi rintuzzato ogni forma di corteggiamento. I due, non si amavano. Quando arrivai a casa Biagi, però, lui non c’era: l’avevano appena portato in ospedale. Il suo cuore aveva ripreso a fare le bizze.
Si riprese, e visse ancora quattordici anni. Ma quell’incontro-scontro sfumò.
Proprio sul cuore Biagi ha scritto delle pagine stupende che meritano di comparire nelle antologie scolastiche. La sua prosa, la sua idea di vita e di cronaca come racconto, andranno un giorno riscoperti. Nell’oceano di elogi, anche dei falsi amici, che accompagna da 16 anni la sua memoria, vorrei che qualcuno lo ricordasse anche e soprattutto come maestro delle cose che durano.
[in copertina: Enzo Biagi ritratto in “Storia d’Italia a Fumetti”]