I- Charles-Henri Sanson (1739-1806), discendente di una celebre famiglia di boia di origine italiana (Pietro Sansoni, trasferitosi in Francia nel ‘600, fu il primo della stirpe), esercitò il mestiere di carnefice, a Parigi, per oltre quarant’anni. Era una figura molto conosciuta e ovviamente evitata da tutti, nella capitale. Ma era anche un uomo di buon cuore. Una volta vide una donna anziana perdere i sensi e accasciarsi in una strada pubblica. Amorevolmente, la soccorse e la fece rinvenire. La vecchia riaprì gli occhi tra le braccia di Sanson e si credé perduta. Senza memoria, in quell’istante, degli avvenimenti precedenti, s’immaginò di trovarsi sul patibolo per espiare una condanna alla ghigliottina. A quel punto, un infarto (che ella forse reputò provvidenziale), le strappò la vita.
II- Charles-Henri fu il più famoso di tutta la schiatta dei boia-Sanson, che proseguì per altre generazioni dopo la sua morte. Giustiziò personalmente circa tremila condannati alla pena capitale, senza badare, per ragioni di scrupolosa deontologia professionale, se fossero o no innocenti. Tra le vittime che consegnarono il loro collo alle sue cure ci furono Luigi XVI, sua moglie Maria Antonietta, Danton e Robespierre. Ancora prima della Rivoluzione Francese Charles-Henri aveva anche collaborato alla terribile esecuzione (culminata in uno squartamento) di Robert-François Damiens, il mistico pazzoide che aveva blandamente attentato alla vita del re Luigi XV.
Una sorte beffarda e altalenante volle quindi che questo boia scortasse sul patibolo sia i re, sia i “regicidi”.
Compiuti i 14 anni, cominciò con i primi lavoretti sul patibolo. Presto (buon sangue non mente) fece saltare qualche testa. Ma la vera investitura di carnefice rotto a ogni bisogna, Charles-Henri Sanson l’ebbe di sicuro quando dové aiutare padre e zio a stroncare la vita di Damiens. Era il 28 marzo 1757, e lui aveva da poco compiuto 18 anni.
Fu un autentico battesimo del fuoco, ma anche dello zolfo, del piombo, dell’olio bollente, della tenaglia, del bisturi, la scure, del tiro a quattro e poi a sei di cavalli squartatori. Tutti questi strumenti di morte e di tortura appena elencati dovevano essere applicati, per sentenza dei giudici, sul corpo d’un solo individuo, un poveraccio che aveva troppo avvicinato sua maestà Luigi XV e l’aveva scalfito con un coltellino, non per ucciderlo, ma solo per “provare” che il sovrano non era né intoccabile, né invulnerabile. Durante il supplizio gli fu imposto di tenere quel coltellino in mano, senza lasciarlo cadere, mentre gliela bruciavano.
Ho scritto nella Fantaenciclopedia un articolo fin troppo dettagliato sulle diverse fasi dell’esecuzione.
In realtà, quella inflitta a Damiens è stata una condanna all’Inferno: non una condanna a morte, ma l’opposto.
I giudici infatti esigono nel verdetto che il “regicida” non esali mai l’ultimo respiro durante i tormenti, ma solo alla fine, quando, sparso ogni rivolo di sangue, consumata ogni forza, sperimentato il massimo di sofferenze concepibili, viene concesso al suo troncone (ancora vivo, dicono alcuni testimoni) di incenerirsi sopra un rogo.
Se muore mentre viene torturato a morte, è come se fosse “evaso”, sfuggito alla sentenza. Deve allora subire una sorta di decapitazione all’incontrario, in cui si separa, dilaniandola, il resto dell’anatomia dalla testa, per lasciare viva quest’ultima: – nella condizione, cioè, nella quale nervi e cervello possano soffrire più a lungo e in modo lancinante. .
Charles-Henri Sanson, che era nel nucleo scelto preposto all’esecuzione, raccontò poi nelle sue Memorie, più o meno apocrife, che Damiens, fino all’ultimo cercò di non perder conoscenza, e anzi assisté con stupore e curiosità crescente al supplizio che lo lacerava. Il giovanissimo boia “vide allora qualcosa che la lingua è impotente a descrivere, qualcosa che lo spirito può appena concepire, che non ha il suo corrispondente se non nell’Inferno, e che io chiamo: l’ebbrezza del dolore”.
Non solo la sua mente, ma anche il corpo stesso di Damiens reagì a quella tortura estrema in modo inaspettato. Giudici e carnefici furono colti di sorpresa dagli sviluppi dell’esecuzione: che nelle loro intenzioni doveva funzionare come una “macchina perfetta”, ma che si prolungò oltre misura, e fu sfibrante per tutti, sbracata, improvvisata e per molti aspetti, triste a dirsi, perfino ridicola, tant’è che il popolino l’accompagnò spesso con scrosci di risate.
Quello di Damiens fu l’ultimo squartamento “pubblico” che si concesse la “civiltà” occidentale nell’era moderna e costituì un nec plus ultra nella Liturgia Spettacolare dei Supplizi.
Di sicuro fu anche un’esperienza che segnò profondamente e visceralmente l’apprendista boia Charles-Henri Sanson: dopo quel che aveva visto e fatto nell’occasione, si può dire che la sua carriera, in un certo senso, proseguì “in discesa”. Difficilmente provò le stesse emozioni, anche quando decapitò i capi di stato in nome dei quali fino a poco prima aveva esercitato il suo mestiere.
III- I carnefici erano impiegati statali; per una norma esplicita, non potevano essere ricevuti o frequentati dagli esponenti di nessuna classe sociale e in generale dal consorzio civile. Tuttavia godevano di solito della stima dei potenti e per certi aspetti molto particolari perfino di quella del popolino, nonostante contribuissero decisamente a decimarlo.
Ai tempi di Charles-Henri Sanson (e di questo c’è più di un cenno nelle Memorie di famiglia), si trovava naturale che gli esecutori delle pene capitali trattenessero presso di loro le teste o i corpi interi dei giustiziati. Molti boia francesi, poi, si esercitavano, più che da dilettanti, nelle operazioni chirurgiche, sezionando i cadaveri freschi che producevano in proprio, nel corso del loro lavoro o durante gli straordinari. Gli anatomisti li pagavano bene quando procuravano loro la salma di qualche condannato, e si può immaginare che i carnefici non solo accompagnassero le loro vittime, ormai defunte e a pezzi, dai chirurghi, ma si fermassero un po’ nei loro gabinetti, a bere alcoli da conservazione e a curiosare durante le autopsie. Mai distratti dalla vita mondana, appena scesi dal patibolo avevano a disposizione un tempo infinito, e infiniti cadaveri, per ripassare le loro lezioni.
In Francia, fino alla rivoluzione del 1789, i boia erano talmente famosi per le conoscenze medico-legali che avevano acquisito, che il proletariato li riteneva veri e propri “luminari” in campo clinico e chirurgico. Venivano perciò preferiti a qualsiasi altro, costoso, specialista. Si può dire insomma che il popolo minuto assistesse volentieri, e non per sadismo, alle esecuzioni in piazza, soprattutto per un interesse personale, in quanto valutava il proprio “medico” al lavoro, meglio che se l’avesse visto in un ambulatorio o in un ala d’ospedale.
Si pensava infatti, forse un po’ ingenuamente, che chi sapeva spaccare ossa, slogare, infilzare, scorticare, e stagliuzzare bene un corpo umano con ogni sorta di lama, conoscesse anche il segreto per svolgere al contrario tutte queste operazioni, e sapesse risanare una lesione o rimuovere un canchero meglio di chiunque altro. Inoltre i boia possedevano generalmente grandi scorte di grasso umano, “al quale”, secondo quanto afferma il Dictionnaire des Superstitions, “si attribuiva la proprietà meravigliosa di guarire certi dolori e un’infinità di malattie”.