[Quasi cinquanta anni fa mi capitò di tenere una serie di seminari sulla “Scuola di Francoforte” all’Università La Sapienza di Roma. Uno di questi, lo dedicai alla “Filosofia del Cinema” – argomento che allora mi appassionava. All’epoca mi premeva soprattutto dimostrare che l’analisi dell’Essenza del Film, operata dai fondatori della Scuola, non si esauriva affatto nell’anatema o nella condanna senza attenuanti. In alcuni passi, o in alcuni saggi come La Musica per Film di Theodor W. Adorno e di Hanns Eisler (uno dei musicisti preferiti di Brecht), la “Teoria Critica” lasciava intravedere una serie di sviluppi positivi per il Cinema futuro: opportunità, anche “tecnologiche”, che bisognava solo saper cogliere al volo. Esisteva dunque la prospettiva d’un Cinema che assumesse forme sempre più avanzate di “autocoscienza”, in virtù delle quali gli sarebbe stato possibile riscattarsi dalla sua stessa origine industriale, mercificata e mercificante.
Naturalmente molte cose sono cambiate, e tra ciò che propongono oggi le Sale o le Serie delle piattaforme, e quello che era lo “stato dell’arte” Cinematografica nel 1947 (anno di pubblicazione de La Musica per Film) o nel 1976 (data del mio saggio, di cui ripropongo qui la conclusione), c’è un abisso. Sugli schermi, da allora sono apparsi migliaia di film d’Autore e sperimentali, in una quantità e con una qualità del tutto imprevedibili negli anni ’30 e ‘40, quando il metro di giudizio di Adorno e Horkheimer si fondava soprattutto sull’Estetica di Hollywood, per molti versi effettivamente detestabile.
Ancora oggi, però, dopo 50 anni, penso che il Cinema che chiamavo “Autocosciente” non si limiti solo alle creazioni dei Filmmakers che si sono ripromessi di usare il loro mezzo per fare “Arte”, e non appartenga solo alla nobile schiera dei Geni e dei Teorici emarginati, come Godard, Straub e Huillet (per fare pochissimi nomi). Ma che ricadano in questo solco o addirittura ne aprano la pista certi prodotti “di genere”, e in special modo quelli di genere Fantastico.
Dopo Guerre Stellari (1977) c’è stata sicuramente la rivoluzione che auspicavamo.
Il successo stratosferico, anche in termini di botteghino, che da allora ha caratterizzato i film fantasy, di fantascienza, horror e i cartoni animati, ha in qualche modo oscurato l’essenza dell’operazione che essi incorporavano: una riflessione globale sulla forma-Cinema nell’epoca del dispiegamento e dell’espansione smisurata delle sue possibilità “tecnologiche”.
Ciò significa che i prodotti di un Cinema veramente Autocosciente non sono tanto, o non esclusivamente, quelli “filosoficamente corretti” nella loro ispirazione e nei loro contenuti, ma soprattutto quelli la cui “analisi critica” si deve necessariamente allargare all’intera nostra società, ai criteri su cui è fondata, all’uso (anche “social”) delle sue tecnologie, e a ciò che solitamente e ideologicamente essa cela per non essere “smascherata” nelle sue pretese di dominio.
Adorno e Eisler ci hanno indicato questa strada quando hanno considerato King Kong (1933) un antesignano “preistorico” di Film Autocosciente: un film il cui “contenuto di Verità” esula dagli stereotipi e si scontra apertamente con ogni compromesso o concessione alla “filosofia” di Hollywood da cui esso stesso è scaturito.]
A proposito di Adorno-Eisler: appunti per una Filosofia del Cinema
«Quando pensatori Come Adorno e Horkheimer hanno rivolto la loro attenzione al Cinema non hanno esitato a considerarlo dannoso, deviante e privo di ogni dignità. Un giudizio come quello che compare nei Minima Moralia: “da ogni spettacolo Cinematografico, m’accorgo di ritornare, nonostante ogni vigilanza, più stupido e più cattivo”, dà la misura della drastica condanna adorniana ed è, in questo senso, programmatico. Una tale valutazione non è affatto isolata: basti pensare ad alcuni passi veementi de “L’Industria Culturale” (capitolo della Dialettica dell’illuminismo), oppure ai più pacati ma non meno duri e stringenti argomenti che Horkheimer oppose al Cinema nei saggi poi confluiti nella raccolta Teoria Critica. Tuttavia, l’averne riconosciuto e sottolineato gli aspetti negativi e deleteri non ha trattenuto i Francofortesi dal formulare alcune ipotesi sull’Essenza della Forma-Film che possiamo definire decisive, ove si volesse fondare una “Teoria del Cinema” che affronti scientificamente e filosoficamente il proprio oggetto.
Già per Benjamin il Cinema distrugge quel momento unico e irripetibile, tanto nella percezione, quanto nella creazione del prodotto artistico, che si trova a fondamento dell’Aura. Similmente nessun film per Adorno potrà mai essere “opera d’arte compiuta”: l’Aura ormai è decaduta storicamente e definitivamente e il Cinema finge, se guarda all’arte tradizionale come al suo passato.
Essenza delle Industrie è la ripetizione, la standardizzazione. Anche il Cinema, come addentellato dell’Industria Culturale, fa un uso reiterato dei cliché. Ciò traspare chiaramente nei generi più tradizionali di Hollywood: western, musical, fantascienza, gangster stories; ma, appena velato, anche negli altri: le situazioni cosiddette drammatiche sono costruite nel Cinema secondo modelli analoghi e ricorrenti. Persino la tensione viene creata artificialmente, tramite stimoli standardizzati. In questo quadro, il ruolo della musica per film è, per Adorno e Eisler, quello di aggiungersi alle immagini sollecitando e guidando determinate reazioni standard nello spettatore. La musica sottolinea due volte quello che lo schermo lascia già capire fin troppo chiaramente: essa diventa allora “tautologia”. Imprigionando lo spettatore nell’ambito del già noto, la musica giunge a vanificare quella tensione che, al pari di ogni altro prodotto artistico, dovrebbe essere suo scopo creare.
Per renderle immediatamente riconoscibili, perché cioè concorrano a costituire Il cliché Cinematografico, il Cinema ha dovuto limitare e neutralizzare le emozioni possibili nell’esperienza artistica. L’uso ricorrente di Leitmotive rivela un’intenzione fondamentalmente neutralizzante. La stessa tecnica illustrativa di Meyerbeer e Verdi ritorna nella rappresentazione dei banali e quotidiani battibecchi Cinematografici che in questo modo vengono resi forzosamente altisonanti e spettacolari.
Ma la spettacolarità, come ampiamente dimostrano i film “melodrammatici”, livella tutti i conflitti. Di fronte ad essi lo spettatore è costretto ad assumere il ruolo di mero osservatore, e l’artificio che ingigantisce il dramma glielo rende al tempo stesso estraneo. La sua identità sociale resta fuori discussione.
Proprio la sua persona concreta è invece investita dalla tensione che procurano l’arte tradizionale e la natura: per questo di esse non è possibile avere una percezione “neutrale”. L’istanza autoritaria dell’Industria Culturale è che le contraddizioni vengano non trascese, ma rappresentate acriticamente, alla stregua di dati fattuali. Ma nell’arte, come nella natura, il fatto, il dato, rimandano sempre a qualcosa di Altro, di diverso, e non costituiscono di per sé un valore. Anche il singolo ramo d’albero, in quanto rappresentante della natura, ci nega come individui operanti nel sistema che tutto reifica.
Nella percezione di un paesaggio crepuscolare c’è tanta tensione morale che dovrebbe indurci alla ribellione. Il tramonto invece, feticizzato dalle immagini filmiche, diventa standard, e quindi merce. Il fatto che la macchina da presa possa riprodurre senza tensione l’oggetto naturale tranquillizza coloro che vogliono, annegando in questa pretesa obiettività, essere esentati dal dolore di un giudizio che in primo luogo è un giudizio su se stessi. Il fascino dello spettacolare e del sensazionale deriva anche da questo ottundimento della coscienza.
Del resto il momento sensazionalistico è essenziale nel Cinema. Adorno e Eisler ci rammentano che fin dal principio esso si presentò come “baraccone da fiera e spettacolo raccapricciante”, che tendeva a suscitare emozioni violente. Il suo criterio fu, ed è, l’assenza di misura: essa trionfa nella violenza sproporzionata su cui si fondano i generi più tradizionali. La violenza generalizzata è quella del pogrom, e il Cinema abitua al pogrom. Come Adorno e Horkheimer postulano nella loro Dialettica dell’illuminismo, il Cinema è “un rito permanente di iniziazione” che prepara alla vita in una società in cui correlati sono i lager e le esplosioni di barbarie incontrollata.
Solo identificandosi in modo masochistico con la violenza inflitta loro da un aggressore invisibile, e preparandosi a riprodurla a loro volta, gli individui riescono a sopravvivere. Ma la loro esistenza è marcata fin nel profondo da un’angoscia “storica”. “Gli uomini attendono che il mondo senza uscita sia messo in fiamme da una totalità che essi stessi sono e su cui nulla possono”.
Nei film sensazionalistici vive, per gli autori di La Musica per Film, qualcosa della nostra angoscia storica. Per questo c’è tanta più verità in film come San Francisco e come King Kong che svelano le dimensioni inconsce del nichilismo, della paranoia collettiva, della brama di autodistruzione della nostra società. La smisuratezza del mostro e del terremoto corrispondono alle reali dimensioni dell’angoscia di una società che si sente ormai prossima alla propria “catastrofe crepuscolare”.
L’intuizione di questa catastrofe fa da sfondo a ogni esperienza artistica autocosciente del secolo ventesimo. Ne era perfettamente consapevole Arnold Schönberg quando, nel 1930, compose la sua “Musica di accompagnamento per una Scena di Film”, che articolò in tre distinti momenti: “pericolo incombente-angoscia-catastrofe”. La musica corrispondeva a qualcosa di più che a un film immaginario. Ridotto nella sua scarna essenzialità, riproduceva uno schema che appartiene a tutti i film come momento fondamentale del loro concetto: l’esperienza traumatica della violenza.
Per Adorno e Eisler, il principio che informa di sé il Cinema è “il principio di tensione”, potentissimo, “persino nella produzione più debole”; una tale tensione, ormai solo lontanamente apparentata con quella propria dell’Arte, è divenuta, nelle pastoie dell’Industria Culturale, pura violenza. Ma il Cinema può indirizzare autocoscientemente questa violenza. La sua positività, come appunto suggeriscono Adorno e Eisler potrebbe allora consistere nel far esplodere, tramite la sensazione (e il sensazionale), la “normale quotidianità”, e nel far “riconoscere le tensioni che l’immagine del normale, mediocre quotidiano nasconde“.
Della realtà troppo spesso il Cinema ha rispecchiato i momenti più privi di speranza, più violenti, più rigidi e schematici. Mentre la coscienza necessariamente procede per giudizi di valore, il film ci mostra al contrario una realtà che di norma si presenta come “al di là del bene e del male”, quale unica e accettabile realtà per un soggetto che si sente giunto alla fine della sua esperienza storica. Al soggetto rimane allora solo la prospettiva di una autoconservazione priva di giustificazioni: e questo è forse il messaggio che il Cinema, nei suoi prodotti non autocoscienti, ci propone: la realtà va accettata perché garantisce, nonostante tutto, nonostante la violenza che siamo costretti a propagare o a subire, l’autoconservazione. Contro una simile ideologia della sopravvivenza è insorta ogni autentica esperienza artistica del secolo XX. Neppure il Cinema si deve precludere la possibilità di fustigare la vita bruta priva di pensiero e di ribellione.
La novità delle conclusioni de La Musica per Film rispetto alle altre opere di Adorno può essere misurata proprio su questo punto, proprio sulla rivendicazione delle possibilità “positive” del Cinema. Ciò che il Cinema finora è stato appartiene alla sua “preistoria”. Divenendo autocosciente, esso può liberarsi dai limiti del tutto contingenti che oggi, in regime di industria culturale, sperimenta. Perché un Cinema autocosciente esista e si sviluppi è anche necessario il supporto di una nuova teoria, che lo costringa a riflettere su se stesso, su ciò che è stato finora e sulle sue potenzialità. “Le possibilità che la tecnica offre all’arte sono imprevedibili – scrivono ancora Adorno e Eisler – e persino nel peggiore Cinema vi sono momenti in cui queste possibilità rifulgono visibilmente”.
Con apprezzabile coerenza, e malgrado l’immagine di fustigatore del Cinema cui si è soliti associarlo, Adorno chiude il libro con un invito ad agire positivamente nel Cinema e per il Cinema, “perché il Cinema modificato non può cadere dal cielo; della sua storia che non è ancora incominciata deciderà la preistoria”».