(Racconto Insolito e Curioso)
Durante la guerra di secessione americana, un evento che ha del miracoloso trasse d’impaccio una caritatevole infermiera, Phoebe Yates Pember, che si prodigava a soccorrere i feriti, dimostrando grande attaccamento alla professione. Fu lei stessa a raccontare l’episodio nel suo libro autobiografico A Southern Woman’s Story.
Nell’ospedale militare di Richmond nel quale lei – confederata, quarantenne – prestava il suo servizio, era ricoverato un giovane soldato, robusto, cordiale, benvoluto da tutti e di bell’aspetto, che era stato ferito gravemente da un proiettile a una gamba.
Finalmente, dopo una lunga degenza, il ragazzo si era alzato dalla branda, e, sostenuto da un paio di grucce, era riuscito a muoversi con discreta facilità, camminando avanti e indietro nella sua corsia.
“Sembrava ormai avviato alla guarigione” – racconta Phoebe – “ma quella notte stessa torcendosi nel letto lanciò un terribile grido di dolore”.
L’infermiera lo raggiunse prontamente e, abbassando le coperte, notò che uno zampillo di sangue stava sprizzando dalla sua ferita, riaperta dallo sforzo prolungato.
«Il bordo affilato dell’osso scheggiato, doveva aver reciso l’arteria della gamba. Ho subito infilato il dito nel piccolo foro causato dal proiettile, per arrestare l’emorragia, e ho atteso l’arrivo del chirurgo. Il medico arrivò presto; diede una lunga occhiata e lo vidi scuotere la testa. La spiegazione di quel gesto era semplice. L’arteria era incastonata nella parte più carnosa della coscia e non poteva essere raggiunta e ricucita. Nessun potere terreno poteva più salvare quel soldato.
Non c’era motivo di trattenere il chirurgo, che aveva bisogno di recuperare tempo e energie; e così rimasi seduta a lungo accanto al ragazzo, il quale era del tutto inconsapevole della gravità del suo problema, e di come il suo dissanguamento fosse stato arrestato.
La prova più dura, tra tutti i miei doveri, ricadeva dunque su di me: era necessario dire a un uomo nel fiore degli anni, e nella pienezza della sua forza, che non c’era alcuna speranza per lui.
Glielo dissi, alla fine. Lui ricevé quel verdetto con pazienza e con coraggio. E dopo aver dato alcune disposizioni, perché la madre fosse avvertita della sua morte, rivolse i suoi occhi interrogativi su di me, fissandomi nel viso.
“Quanto tempo posso vivere?”
“Solo finché tengo il dito premuto sulla tua arteria“.
Seguì una pausa. Dio solo sapeva quali pensieri si affollavano in quel momento nel suo cuore e nella sua mente […].
Alla fine ruppe il silenzio:
“Potete toglierlo…”
Ma non potevo. Nemmeno se la mia stessa vita fosse stata in bilico, l’avrei fatto. Lacrime calde assalirono i miei occhi, un suono assordante gli orecchi e un freddo mortale le mie labbra.
Il dolore di obbedirgli mi venne risparmiato, e per la prima e ultima volta nel corso delle prove che dovetti affrontare nei miei quattro anni di servizio come infermiera, io persi conoscenza, e svenni».