I- Il “Dono Ambìto” delle Lacrime
In Frammenti di un Discorso Amoroso, Roland Barthes si domanda: «Chi scriverà la storia delle lacrime? in quali società, in quali epoche si è pianto? Da quando gli uomini (e non le donne) hanno smesso di piangere? […] Le immagini della virilità sono mutevoli; i Greci, la gente del XVII secolo piangevano molto a teatro. Stando a Michelet, san Luigi si affliggeva per il fatto di non aver avuto il dono delle lacrime; una volta sentì le lacrime scendergli dolcemente sul volto ed “esse gli parvero gustose e dolcissime, non solo al cuore ma anche alla bocca”». C’è da credere, che le lacrime dei santi, siano diverse: non sanno sale.
Probabilmente, nel frattempo qualcuno ha già scritto la “Storia delle Lacrime”. Ma non so se ha tenuto conto di tutti i territori nei quali poteva inoltrarsi.
Dal punto di vista biblico, a esempio, la comparsa delle Lacrime negli uomini e le donne è abbastanza recente: ha poco più di seimila anni, secondo certe cronologie, e circa 7200, se si prende per buona la datazione di Eusebio di Cesarea. Infatti i nostri Progenitori erano dotati di canali lacrimali, ma ignoravano il loro utilizzo, al momento della Creazione.
Come arguisce Giovanni Climaco (nella Scala al Paradiso, gradino VII), “prima del Peccato, Adamo non aveva lacrime; e non ce ne saranno più dopo la Resurrezione”.
Per uno spirito religioso di temperamento tendente al mistico, il Pianto continuo, privo di ragione apparente, è un “dono” celeste, e bisogna rendersene degni. Attesta il già citato Climaco, che il “felice e tanto meritorio pianto” va indossato come una “veste nuziale”.
Sant’Arsenio il Grande (354-449), precettore dei figli dell’imperatore Teodosio, per ordine dell’Altissimo fuggì dalla molle Bisanzio e riparò nel Deserto egiziano. Solo quando ebbe ripudiato in toto l’umanità, fu premiato con la facoltà di spargere le lacrime. E non solo durante l’orazione, o le penitenze. “Chiunque gli parlasse, subito piangeva”, senza tregua, senza ristoro. Soffriva, per dir così, dall’interno dell’anima, e non per cause esterne, corporali. Pianse giorno e notte ininterrottamente, secondo certi agiografi, per più di mezzo secolo.
“Signore, fa’ che i miei occhi siano pieni di lacrime”, così pregava il Profeta Maometto.
Le lacrime di Rabi’a, la santa sufi morta a ottant’anni nell’801, erano famose, e intollerabili per i comuni peccatori. Racconta Ibn al-Gawzi: “Entrai da lei mentre era seduta su un pezzo di una stuoia di giunchi. Un uomo che le era accanto le parlò. Cominciai, allora, a udire il rumore delle sue lacrime, che cadevano sulla stuoia come una pioggia. Poi si turbò e gettò un grido. Ci alzammo, e ce ne andammo”. Però, per fortuna nostra, qualcuno finalmente ebbe il coraggio di chiedere alla santa perché piangeva sempre. Rispose: «Temo che nell’attimo estremo una voce gridi e mi dica: “Rabi’a non é degna di apparire alla nostra presenza”».
II- Despoti
Il bieco Tiberio, – si indigna Svetonio, nei Dodici Cesari – giunse persino a vietare che i parenti piangessero le vittime della sua ferocia.
L’Imperatore romano fu però solo pallido epigono di quel tiranno, usurpatore del trono di Trezene, che cercò addirittura di proibire ai suoi sudditi ogni espressione facciale, compresa quella che si accompagna con le lacrime.
Eliano ne racconta la storia così: questo dittatore, “volendo eliminare le congiure e i complotti contro di lui, proibì agli abitanti del paese di parlare tra di loro sia in pubblico sia in privato“. Assurdo, ma razionale. Le cospirazioni migliori sono nate confabulando.
I cittadini però reagirono e cominciarono a comunicare tra loro con i movimenti delle mani e del corpo, oppure con lo sguardo, aggrottando la fronte, e con altre smorfie espressive. Il tiranno vietò loro anche quel gesticolare tipico del linguaggio dei sordomuti.
Allora uno dei suoi sudditi, reso disperato da quei divieti, si recò nell’agorà, e, bene in vista, cominciò a piangere “versando lacrime calde e copiose”. Ben presto i suoi concittadini lo imitarono, nella più grande crisi di pianto di massa di cui le cronache abbiano notizia.
Il tiranno indispettito allora corse nell’agorà con le sue guardie, per por fine, armi alla mano, a quel generale piagnisteo.
Mal gliene incolse. Appena lo videro, i suoi sudditi lo uccisero senza pietà.
Questo aneddoto si legge nell’epitome di Eliano Storie Varie (XIII, 22).
Erode, memore di ciò che era successo a Sansone e a tutti i Filistei, ordinò che nel giorno della sua morte, i maggiorenti e i nobili ebrei fossero concentrati nell’ippodromo, e fossero fatti a pezzi dai soldati. Temeva infatti che i Giudei si sarebbero rallegrati della sua scomparsa, mentre, così facendo, avrebbe empito Gerusalemme di pianti, afflizioni e lutti, talché potesse sembrare che il suo popolo piangeva per lui.
Il piano era ben congegnato, e tutto era pronto per la strage: Flavio Giuseppe scrive però che quella ignominiosa “rappresaglia” non venne messa in pratica.
L’ “umiliazione del Re” era l’atto pubblico più importante attorno a cui ruotava la liturgia della Enuma Elish, festa religiosa del Capodanno in Mesopotamia. Il re consegnava le sue insegne a un sacerdote che le riponeva nel tempio, davanti alla statua del dio Marduk. Poi il sacerdote tornava fuori, e, di fronte alla folla, «lo schiaffeggiava: dopo di che lo accompagnava dentro il tempio e “lo tirava per gli orecchi e lo spingeva giù verso il suolo”». Il re allora confessava le proprie colpe, e se il dolore fisico e la contrizione non erano sufficienti a farlo piangere, il dio Bel, non vedendo lacrime, si sarebbe adirato con lui, e l’avrebbe condotto alla rovina.
Mentre il sovrano veniva così umiliato, Babilonia era in preda a una totale, e rituale, anarchia.
III- La Pioggia in Elemosina
È costume atavico di certe tribù africane, mentre infuriano nei loro territori le siccità più perverse, ottenere la pioggia, commuovendo il cielo: perché il cielo, piovendo, in realtà “lacrima”. Per questo si ricorre allo spettacolo pietoso dei bambini. “Nello Zululand”, riferisce James Frazer, “le donne seppelliscono talvolta sino al collo i loro bambini nel terreno e poi ritiratesi a distanza innalzano per lungo tempo un lugubre lamento; e si suppone che il cielo a quella vista si scioglierà in pianto dalla pietà”.
In un villaggio del Chinna Kimedy, l’intera tribù seviziava un condannato a morte, un capro espiatorio l’agonia del quale era volontariamente protratta per ore; si applicavano tizzoni ardenti sulle carni della vittima legata, e si era convinti che “più lacrime versava e più abbondante sarebbe stato il raccolto”. Si specifica nel Ramo d’Oro, che le lacrime, secondo questo, ma anche secondo altri popoli, inducono per simpatia l’arrivo della pioggia, e, scongiurando la siccità, irrigogliscono i campi.
IV- Considerazione moralistica finale
La “Storia delle Lacrime” non interessa più nessuno, come la storia di certe specie naturali, piante e bestie, ormai estinte da millenni. Non perché non si pianga più, tutt’altro. È perché quello che accade agli altri, ormai ci dà fastidio, se non è spettacolare. E quel che accade a noi, è meglio nasconderlo, per non essere derisi. Ci occupiamo delle lacrime solo quando gocciano dagli occhi delle statue delle madonnine e mai quando sgorgano a fiumi dagli occhi dei reietti, uomini, donne e bambini.
[in copertina: particolare del Cristo alla colonna, di Antonello da Messina]