L’ha dimostrato la polemica recente sullo “scippo” operato dagli attori americani a scapito di quelli nostrani nei Biopics che riguardano Ferrari o altri grandi connazionali: noi italiani, siamo scherniti nel resto del mondo come quelli che ancora “doppiano” i film altrui e persino i propri. E c’è chi ancora incolpa il Doppiaggio, se gli Italiani, attori e attrici compresi, non parlano fluentemente l’inglese, non lo capiscono bene, e quindi non vengono presi in considerazione, nonostante la bravura, per parti da protagonisti a Hollywood.
Sono stato invitato a parlare di questo, e del Doppiaggio in generale, al Dubbing Glamour Festival di Genova, il 15 settembre. Ecco il testo del mio intervento.
Come la traduzione consegna il testo letterario, morto e datato, alla viva lingua altrui, così il doppiaggio, elemento irrinunciabile nel cinema professionale, accresce di colpo la cultura orale di un popolo.
“Lo senti? È coso…. Burt Lancaster. Quant’è simpatico!”, dice emblematicamente Anna Magnani in Bellissima (1951, regia Visconti, soggetto Zavattini), mentre ascolta solamente, e da lontano, la voce ineguagliabile di Emilio Cigoli, che recita battute nella “parte” di Burt Lancaster.
In Italia, lo spettatore medio è stato convinto, per decenni, senza dichiararlo, di conoscere la voce degli attori francesi, inglesi, americani, e invece conosceva solo quella dei doppiatori. Bellissima è un esempio classico: un film che parla del fascino che esercita il Cinema sulle menti popolari.
Il Doppiaggio, a livello mondiale, dové patire molte traversie prima che venisse riconosciuto come una forma di “Traduzione”. Eppure è di questo che si tratta. Nessuno di noi pretende di leggere Kawabata o Tanizaki, o Mishima, in lingua originale, e quindi nessuno protesta leggendoli tradotti in italiano. Magari ci si può orientare con la critica e capire se la traduzione è buona. Ci sono poi i traduttori dei traduttori, ma sono aspetti dell’editoria che accettiamo. Quello che nessuno di noi tollererebbe è avere il testo originale in giapponese e, sotto, un riassunto in italiano, oppure il 50% del testo tradotto e il resto no. Mentre è proprio questo che succede quando andiamo al cinema a vedere un film in lingua originale sottotitolato: non è possibile, senza imbrattare totalmente l’inquadratura, restituire tutte le battute della sceneggiatura e conservarle nelle didascalie.
Impostando così la questione non si capisce allora il motivo per il quale il “Doppiaggio”, come fenomeno esclusivamente cinematografico, abbia suscitato tante critiche, polemiche e anatemi.
Il fatto è che la “questione” del Doppiaggio non è, in sé, quella del rispetto che si porta a una sceneggiatura in quanto ultimo passaggio di un processo di “traduzione”, ma è cruciale, per giudicarlo, il trattamento che riserva a una componente fondamentale della recitazione: la Voce originale degli attori, che viene “sostituita” da una voce che non è la loro.
Col rischio certe volte (calcolato) che quella del doppiatore sia migliore della voce originale: e questo aspetto “migliorativo” è stato fondamentale nel cinema italiano almeno fino alla fine degli anni ’70. Il bravo doppiatore rendeva accettabile anche chi recitava come un cane, o non sapeva mettere due parole in fila. I protagonisti, americani o no, dei film di genere, serie A o B o C, come quelli mitologici e western, che hanno fatto la fortuna del cinema italiano, dalle Fatiche di Ercole (1958) a Un dollaro bucato in giù, devono tutta la loro credibilità al Doppiaggio.
Forse, prima di affrontare questo tema, sarebbe meglio chiedersi subito se oggi la “questione del doppiaggio” venga intesa da tutti nello stesso modo come ai tempi delle dispute più eroiche che vedevano schierati, da una parte, autori e critica cinematografica, e dall’altra i produttori, che volevano guadagnare il più possibile dalla diffusione internazionale delle pellicole.
La risposta mi sembra: no. Si dà per scontato, oggi, che tutto questo dibattito sia finito sullo sfondo. La questione non esiste più e in qualche modo anche questo dileguarsi di polemiche è il pedaggio che paghiamo ai nostri tempi, per i quali non è più in discussione né come, né “se”, opporsi alla logica della mercificazione forzata, alle dinamiche di mercato. Oggi i professionisti del profitto non hanno più i sensi di colpa dei grandi produttori italiani degli anni ’40-80, che almeno concedevano qualcosa, uno spazio vitale, al Cinema d’arte e d’autore. Adesso lasciamo lavorare i padroni delle filiere e i manovratori della distribuzione, senza disturbarli. Col rischio che la quantità dei prodotti doppiati offerti sul mercato (basti pensare alle innumerevoli Serie delle piattaforme) soffochi la qualità di questi prodotti, e punisca chi per quella si batte.
Ma non è giusto che del “Doppiaggio” non si parli più, tranne che nelle manifestazioni dedicate a questa branca della cinematografia, come il Dubbing Glamour Festival di Genova, che si sta per concludere.
Finchè il Doppiaggio non sarà sostituito dalla recitazione in esperanto o in un’altra lingua universale, fino a quel giorno, la disputa “originalisti” contro “appassionati del doppiaggio” non vorremmo che si spegnesse: sarebbe un brutto segno. Perché, in questo dibattito, è dell’Essenza del Cinema che si parla.
La polemica è talmente antica che risale ai primi film sonori, ed è sfociata subito, fin dagli anni 30 del secolo scorso, inevitabilmente, nella faziosità, nell’insulto reciproco, nello spintone.
Jacques Becker negli anni ’60 definì il doppiaggio dei film “un atto contro natura, un attentato al pudore, una mostruosità”. In Italia molti insorsero al suo fianco scagliando fango contro una simile “barbarie”.
Naturalmente i puristi che arricciano il naso se si trasferisce Wim Wenders in italiano sono gli stessi che bestemmiano quando trovano le istruzioni della sveglia in tedesco.
Ma non è certo con sarcasmi come questo, che si può smontare o sminuire una petizione “di principio”, se è giusta. Lo stesso però può dirsi però degli avversari del Doppiaggio.
Quando si ricorre a un paradosso per accusare i rivali di mancanza di coerenza, si confessa già, implicitamente, di aver perduto. E proprio un paradosso degno della Scolastica veniva evocato di continuo dai crociati dell’antidoppiaggio (come Straub-Huillet, per esempio). È il classico argomento retorico di Jorge Luis Borges (si legge in Discussione) che potremmo semplificare così: “più di uno spettatore si domanda: dato che c’è un’usurpazione di voce, perché non anche di figure? Quando sarà perfetto il sistema? Quando vedremo direttamente Tina Lattanzi nella parte di Greta Garbo, nella parte della regina di Svezia?”.
Faccio notare che il vocabolo “usurpazione” denuncia già un concetto magico-animistico della Voce, un “Mito” che viene calato in un rapporto di “Fedeltà al Potere”.
Questa obiezione borgesiana sembra risolutiva, ma ha una risposta, tra le altre, persino facile.
Chiedere: “quand’è che il Doppiatore/ la Doppiatrice si sostituiranno in toto alle Star, prendendo il loro posto anche nelle inquadrature?”, proietta nel futuro come se fosse un’iperbole derisoria, una situazione che invece il Cinema ha già vissuto, nel suo passato storico.
Lo ricorda Enrico Ghezzi in un articolo scritto per “il manifesto”:
“Il merito del sonoro è di aver scisso anche solo l’illusione dell’opera d’arte universale che non ha bisogno di traduzioni. Nei primi anni trenta in America come in Europa, date anche le difficoltà-impossibilità tecnico-economiche di post-sincronizzazione, fu consuetudine doppiare integralmente i film, Corpi degli Attori compresi. Dato un progetto, una sceneggiatura e un investimento produttivo, si giravano (con registi diversi) due-tre-quattro versioni in lingua diversa (francese tedesca svedese spagnola italiana inglese) e con attori diversi di nazionalità appropriata e situazioni narrative qua e là mutate secondo costumi o censure locali. Mancando un’agilità di montaggio su due colonne separate (suono-immagine) era il corpo intero del film a essere tradotto in un’altra lingua, intendendosi correttamente che il corpo e il volto dell’attore sono anch’essi nell’inquadratura elementi linguistici materiali, identificabili e (con tutti i vantaggi e inconvenienti del caso) traducibili“.
Alla fine degli anni ’20, e al principio dei ’30, la post-sincronizzazione (essenziale nel Doppiaggio) non esisteva ancora: immagine e sonoro originale erano inseparabili e impressi sullo stesso supporto, e dunque e per una questione di arretratezza tecnologica lo “stesso” film veniva girato, negli stessi ambienti (studios) e con le stesse inquadrature, da attori che recitavano nella loro lingua madre. Oppure, ma più raramente, e soprattutto per i film comici, da attori americani che cercavano di parlare in altre lingue (è il caso di Stanlio e Ollio: alla loro prima performance, mai più ripetuta, dobbiamo il repertorio di parole italiane con gli accenti sbagliati – per esempio mignòlo al posto di mìgnolo –, che ci è giunto, come eco, nei doppiaggi successivi, a cominciare da quelli di Sordi e Zambuto).
Questo significa: che ci sono stati effettivamente film delle Majors degli Stati Uniti, nei quali una Doppiatrice o Doppia-attrice (come, nel caso nostro, Tina Lattanzi) ha preso davvero il posto, la Voce e il corpo di Greta Garbo.
Se immaginiamo cosa comportava questa scelta a livello produttivo, dobbiamo allora riconoscere, in modo storicamente inoppugnabile, che il Doppiaggio, quando è stato “inventato” grazie al progresso della tecnologia, ha fatto il bene del Cinema, liberandolo da insopportabili lacci e costrizioni. E questo, sia dal punto tecnico che creativo: perché senza le possibilità (di diffusione planetaria, e quindi di profitto) che il Doppiaggio offriva, i Film sarebbero rimasti fissati a un grado elementare, e teatrale. Le scene rifatte due o tre volte in lingua diverse negli stessi giorni occupavano lo stesso set, le stesse scene e le stesse luci, e per ragioni di tempo, dovevano essere semplificate. I grandi kolossal non erano neppure ipotizzabili con questo sistema “riduttivo”, e neanche le innovazioni di linguaggio, i movimenti di camera più azzardati e sperimentali, avrebbero trovato spazio e finanziamenti. A meno di realizzare un altro film, differente dall’originale, sulla base della stessa sceneggiatura “tradotta” in altre lingue: cosa che solo pochissimi, come Alfred Hitchcock, riuscivano a fare.
Il rapporto del Cinema Italiano col Doppiaggio è poi ancora più decisivo che in molte altre cinematografie. Da noi l’apporto della post-sincronizzazione si è rivelato fin da subito fondamentale e costitutivo, una specie di “marchio di fabbrica” senza il quale i nostri Film d’Autore non sarebbero neanche esistiti.
Persino il successo mondiale del Neorealismo italiano dipende del Doppiaggio, e tante volte gli attori “presi dalla strada” hanno parlato esattamente come John Wayne, Henry Fonda e Humphrey Bogart. Più che la strada, è stata la sala della CDC, cooperativa di doppiaggio, che li ha resi “attori”. In Roma città aperta, di Roberto Rossellini (1945), Rosetta Calavetta – straordinaria voce “storica” di Marilyn Monroe – presta la voce a Carla Rovere, e Francesco Grandjacquet, il “Francesco” rastrellato dai nazisti e inseguito da Anna Magnani, è “tradotto” da Gualtiero de Angelis – “alter ego” italiano di James Stewart, Cary Grant e Dean Martin. In Ladri di biciclette (1948) di Vittorio de Sica, il capo netturbino che aiuta il protagonista è doppiato da Aldo Fabrizi, e il ricettatore di biciclette rubate, da Alberto Sordi. Voci inconfondibili.
[CONTINUA: il 2 ottobre la seconda parte]