Le Coproduzioni internazionali – formula senza la quale i grandi capolavori di Fellini, Antonioni, De Sica, Rossellini, Germi, Visconti e Pasolini non avrebbero mai visto la luce –, includevano il Doppiaggio, come parte integrante e irrinunciabile, già nel progetto di partenza. I set di Cinecittà, dove la “presa diretta” dell’audio aveva solo un valore orientativo, erano vere e proprie Torri di Babele. Per cui, come mostra Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood (dopo aver spedito Di Caprio in Italia a rilanciare la sua carriera), di norma ogni attore o attrice parlava la propria lingua, e un americano rispondeva in inglese a un tedesco, e quello girava la battuta a un francese o a uno spagnolo.
Bernardo Bertolucci osteggiava il Doppiaggio. Poi fece doppiare Marlon Brando in Ultimo Tango a Parigi dal grandissimo Peppino Rinaldi, naturalmente: perché un film è soprattutto un “fatto economico” al quale concorrono mille fattori e centinaia di persone, e essere “puristi” fino in fondo è assai difficile. Però su questo settore nevralgico della cinematografia ha espresso più di un’opinione giusta. Per esempio, richiamandoci tutti ad ammettere che solo i Paesi che hanno subìto una dittatura hanno perfezionato e perpetuato il Doppiaggio: Italia e Spagna, sopra ogni altro.
È vero: il doppiaggio permette di stravolgere il senso di un film. Ricordo L’eterna illusione di Frank Capra. Mischa Auer, in questa stupenda pellicola veniva doppiato da uno strepitoso Carletto Romano. Era un esule russo, e a un certo punto, gridava “È la Rivoluzione!”. Questo, nella versione originale americana. Ancora oggi noi lo ascoltiamo dire invece, in italiano: “È l’Apoteosi!”. Una battuta senza senso, come quelle che spesso la censura – non importa se dei fascisti anni ’20/’30 o dei cristianissimi anni ’40/60 – ha imposto nei cinema.
È solo un esempio, ma i maltrattamenti, i travisamenti, possono essere, e sono stati, infiniti. Il Doppiaggio ha però avuto un duplice ruolo nell’operato della censura. Un ruolo “dialettico”; non è stato solo un fiancheggiatore. Quando i moralisti, i bacchettoni, i fantocci dei governi, cominciavano a tagliare e davvero a stravolgere i film (non parlo di quelli scollacciati, ma opere di Fellini e di Antonioni), e comandavano che certe scene scomparissero del tutto, o certe battute venissero letteralmente raschiate dalla colonna originale, allora un nuovo Doppiaggio o un’imprevista “voce fuori campo” permettevano ai film “rimontati da capo”, di recuperare un filo di logica e un raccordo di racconto: e di avere quindi una funzione positiva.
Il mio compito non si esaurisce con questo tipo di riconoscimenti al Doppiaggio, che in fin dei conti sono ben noti a tutti. Vorrei invece contribuire a dimostrare, con una casistica appropriata, che il Doppiaggio non è né un pedaggio, né un oltraggio, in assoluto, che il Cinema deve pagare e subire per meri motivi economici e di profitto, ma fa parte geneticamente, dagli anni ’30 in poi, della stessa possibilità che il Cinema sussista.
Non è un parassita dei film: il Film, nella forma più diffusa che conosciamo, l’ha previsto dal principio, dal momento stesso in cui è diventato “sonoro”, come sviluppo essenziale e elemento progressivo delle sue potenzialità, anche artistiche.
Ma per procedere in questo senso non si può evitare di affrontare la “questione” fondamentale del Doppiaggio, quella evocata in partenza, ossia: è vero che “doppiare” è una forma di mancanza di rispetto per l’Autore? E ancora: è davvero un’offesa al giusto principio dell’inviolabilità della Voce dell’attore o dell’attrice – e persino alla loro integrità di spirito e di corpo?
Enrico Ghezzi, nell’articolo che ho già citato, enuncia posizioni “teoriche” che finiscono per collimare con le mie; ed è importante che l’inventore di Fuori Orario, dove tutto il Cinema veniva riproposto – o proposto in prima visione televisiva –, rigorosamente in lingua originale e sottotitolato, difenda il Doppiaggio non in assoluto, ma per confutare le tesi dei suoi detrattori più nostalgici e retrivi:
“Difendere il corpo del film” – scrive Ghezzi – “è la missione di chi considera il doppiaggio un attacco inammissibile all’integrità e la completezza del testo. Si tratta naturalmente di un “corpo mistico”, visto che poi è lo spirito del film, il senso, a essere invocato.
[…] Ma perché illudersi che il Cinema sia davvero opera d’arte totale e oggetto universale, e non anche (o solo) un testo-Frankenstein costruito per assemblaggio precario di diversi corpi e elementi, immesso in un mercato dove la pratica della combinazione continua, smembrandolo e ricomponendolo in testi ulteriori. Oltre ogni cancellazione, parziale riscrittura, riassemblaggio, protesi, il corpo infine permane, considerato dal pubblico non nella sua forma pura ipotetica cristallina ma proprio come fantasma informe. Il mito del film esatto, del diamante lucido mallarmeano inattaccabile dagli agenti atmosferici e dalla storia, è poco praticabile, se il cinema stesso (proprio in quanto composto, composito) fa parte dell’atmosfera in cui si vive e si muove. Un coup de dés jamais n’abolira l’Hazard, (Mallarmé). Straub insegue il cristallo e la sua luce, Kubrick (che non gli cede in rigore) è costretto a accettare che i suoi cristalli-film vengano doppiati, per poter essere prodotti (costano). E né l’uno né l’altro né altri possono rifiutare la traduzione televisiva (traduzione nel senso di dislocazione forzata: carceraria direbbe qualcuno). Il mito della produzione cinematografica come riproduzione precisa e perfetta di un’idea o di una concezione originaria del regista, dello sceneggiatore, del produttore (insomma in fondo come traduzione assoluta del film sognato e previsto) non può spingersi fino al punto di ignorare il mito principale in cui è immerso: quello del denaro”.
Ghezzi parla dunque del “corpo mistico” del film, come “illusione”. Un corpo nel quale è incastonato come una gemma un altro corpo, quello dell’attore, dell’attrice, della Star. Questo corpo è divenuto nel tempo ancor più mistico del film stesso, perché viene misticamente offerto a un pubblico di spettatori paganti e baccanti.
Per cui la Star non si accontenta che il Doppiaggio sia anche un modo di portare la sua immagine, la sua fotogenia, nei luoghi più remoti della Terra, ma ha ragione di protestare per una violenza inammissibile, un sopruso, in quanto è in gioco quella parte del suo Spirito che diventa “udibile”, la Voce.
A questa tesi s’accoda, o se ne fa promotrice, la Voce dell’Autore.
Con tutto il rispetto per queste lamentazioni che si richiamano al Mito dell’Integrità umana, – che non è falso di per sé, ma abbondantemente messo in discussione da tutta la grande arte, letteratura, cultura e persino musica, da due secoli a questa parte –, vorrei ribadire allora una mia tesi, uscita ugualmente sul giornale il manifesto, in un articolo abbinato a quello di Enrico Ghezzi.
Chi pretende di ascoltare sempre e comunque il suono della viva Voce dell’Attore e dell’Attrice cinematografica, a rigore dovrebbe esigere che la loro presenza nei film sia “totale”: che Charlton Heston sia sempre sulla biga di Ben Hur, Fay Wray nella zampa pelosa di King Kong, Deborah Kerr “realmente” di fronte al toro furibondo di Quo Vadis, Tom Cruise o Sean Connery attaccati veramente all’aereo o all’elicottero in picchiata.
Il cinema che frantuma l’individuo in 100 tagli di inquadratura, che lo sostituisce continuamente con dettagli altrui o con contro-figure, che fa violenza alla sua integrità personale, perché mai dovrebbe aver riguardo per la sua voce? Quando la metà di una stessa battuta di sceneggiatura viene detta a Hollywood, e l’altra metà in Cina, che differenza fa ascoltarla in inglese o in cinese?
Un’ultima obiezione, sempre paradossale: se il Doppiaggio non esistesse, il cartone animato non avrebbe superato la soglia del “muto” e non avremmo avuto Paperino, Daffy, Droopy, HAL 9000, e E.T. non avrebbe mai telefonato a casa.
A essere coerenti fino all’eccesso, l’odio per il Doppiaggio dovrebbe mettere al bando anche i ventriloqui e i burattinai.
Ma basta paradossi. Quello che voglio dire è che sbaglia chi difende l’edizione originale solo per ribadire la sacralità del ruolo dell’attore, mentre tutto intorno a lui dimostra d’essere stato dissacrato dal sistema tecnologico e industriale del Cinema, e l’attore stesso è stato fatto in tanti pezzettini che solo la mano magica del regista potrà (se vorrà) rimettere insieme.
Quindi c’è da chiedersi se la continuità sonora vada salvaguardata solo per deferenza alla Mistica dell’attore. Come se il Cinema fosse Teatro.
Questa mia difesa a oltranza del Doppiaggio, però, non intacca il principio sacrosanto che sarebbe comunque indispensabile, per gli spettatori, poter ascoltare i divi e i grandi attori di qualsiasi epoca nella loro performance originale e integrale. Sono le “modalità” con le quali questa auspicabile fruizione oggi avviene, che lasciano perplessi. Quello della “sottotitolazione” è un settore nel quale i progressi tecnologici hanno lasciato pochi segni, da molti anni a questa parte, riguardo al rispetto per i “contenuti”.
Perciò invito spettatori e spettatrici che volessero farsi un’opinione giusta e critica di un Film, a “doppiarlo” a loro volta. A vederlo cioè due volte, una in edizione originale sottotitolata, una in un “buon” Doppiaggio italiano. La proposta non vale solo per i classici. Le piattaforme, soprattutto, consentono già adesso questa “doppia” interazione. E per fortuna ci sono Serie e Film per i quali è sempre godibile rad-doppiare la visione.
Genova, intervento al Dubbing Glamour Festival.
[La nostra analisi prosegue il 7 novembre con un omaggio a Emilio Cigoli e ai doppiatori dell’epoca d’oro]