I- Credo sia doveroso, in un sito come il nostro, trattare il fenomeno “fortiano” dell’Autocombustione Umana, amato e seguito ancora oggi dai giornali popolari di tutto il mondo.
Riguarda persone che sono morte divorate dalle fiamme – scaturite improvvisamente e senza apparente ragione dall’interno del loro stesso corpo.
Agli albori della medicina moderna, una sequela d’episodi fatali che potevano essere originati dall’Autocombustione furono studiati, e accertati, da studiosi del calibro di Vicq d’Azir, Le Cat, Maffei, Jacobaeus, Rolli, Bianchini e Mason Good.
Nelle centinaia di casi registrati dagli annali scientifici o polizieschi di tutto il mondo, ci sono caratteristiche orripilanti che si ripetono: le vittime, quasi sempre donne, quasi sempre assopite, bruciano da sole, senza testimoni; tra i resti inceneriti, risaltano integri parti del cranio e uno o due arti: spesso gambe, spesso polpacci che culminano con piedi ancora calzati; tutto intorno alle spoglie consumate dal fuoco, ci sono pochissime tracce ulteriori di incendio; dalle pareti della stanza, teatro della tragedia, gronda una materia untuosa, una melassa giallastra di natura anomala che sembra uscita da un incubo.
Quel che rimaneva della contessa Cornelia Zangari di Cesena fu appunto rinvenuto in questo stato, e ne riferì alla Royal Society di Londra, nel 1731, il presbitero Giuseppe Bianchini, senza riuscire a darne una spiegazione convincente. Charles Dickens si appassionò talmente alla materia che fece morire in questo modo strabiliante l’anziano alcolista Krook, uno dei protagonisti del suo romanzo Bleak House (Casa desolata).
Famosa fu la fine orribile dell’autocombusta di Ipswich Grace Pitt, bruciata dal di dentro il 9 aprile 1744. Ancor più documentato è il decesso misterioso di Mary Hardy Reeser, di St. Petersburg, in Florida, avvenuto il 2 luglio del 1951. L’unica scarpa sopravvissuta della donna fu inviata personalmente a Edgar Hoover, perché fosse esaminata dagli esperti dell’FBI.
Gli scienziati, sono solitamente pronti ad affermare che non c’è nulla di soprannaturale o di extraterrestre nell’Autocombustione (o SHC, acronimo di “Self Human Combustion”). Si ritiene infatti che su certi soggetti grassocci e pesantemente addormentati basti un piccolo innesco, una scintilla che comincia a bruciare il loro vestito, per provocare gli incendi in questione. Allora è come se si ospitasse in grembo una grigliata di carboni ardenti. L’importante è che questi falò durino molte ore, certe volte almeno una decina, senza che la loro vittima si svegli ululando per il dolore provocato dalle ustioni.
Robert Macnish (nel suo The Anatomy of Drunkenness), notò – e non fu il solo – che in quasi tutti casi osservati, i soggetti carbonizzati erano anziane donne alcolizzate. La sessantenne Grace Pitt, per esempio, aveva appena festeggiato il ritorno a casa di una propria figliola con una notevole serie di cicchetti. Della sessantaseienne Mary Reeser, si sa invece che era una donna dal carattere giulivo, ma che nella sera fatale aveva ingerito una doppia dose di sonniferi.
Tuttavia queste spiegazioni non soddisfano completamente. Le circostanze nelle quali si è sviluppata l’Autocombustione di cui parliamo si ripetono tutte le sere in milioni, forse un miliardo di case abitate da single, o da vedovi; il numero delle donne fumatrici, anziane, solitarie, tondeggianti e indulgenti con l’alcol è elevatissimo, eppure i casi accertati di SHC non superano, pare, il migliaio. Com’è possibile?
Si trascura probabilmente un fatto: che esistono individui particolarmente dotati, capaci di sviluppare Fonti di Calore all’interno del proprio corpo. I pranoterapeuti per esempio appartengono alla categoria in questione, e forse ne costituiscono solo il gradino più basso.
Quel che appare strano e inquietante in queste cronache, è che a bruciare fino all’autoconsunzione siano state persone in apparenza “normali”, e persino – chiedo loro perdono – “mediocri”. Per secoli, invece, i Santi di tutti i popoli hanno emesso Fiamme e Calore Ustionante, senza che nessuno se ne sia mai stupito.
II- Il calore naturale del corpo dei Santi, quando sono in vita, è tale che, elevandosi la loro temperatura a livelli sovrumani, si è parlato per loro di “miracolosa combustione”, o, in gergo mistico-teologico più appropriato, “incendium amoris” – terminologia inventata dall’eremita inglese Richard Rolle di Hampole, morto nel 1349.
I santi del più lontano passato induista solevano coltivare e sviluppare il tapas: il “calore ascetico”, secondo la preziosa definizione che riprendo da De Santillana e von Dechend.
Da parte loro, le costole di san Filippo Neri e di San Paolo della Croce “si erano incurvate per il calore cardiaco”.
E: “fu visto ardere nel suo romitorio san Francesco da Paola (e accendere col nudo dito le lampade votive)”.
Riferisce lo studioso del misticismo Paolo Arrigo Orlandi, che “sul petto di san Stanislao Kostka (1550-1568) si dovevano applicare panni intrisi di acqua gelida per calmare l’ardore che lo struggeva; camminando scalzo sulla neve, san Venceslao di Boemia (circa 908-929) raccomandava al servo che lo accompagnava di porre i piedi nelle sue orme per riscaldarseli. A causa dello slancio della carità, san Pietro d’Alcantara (1499-1562) non poteva rimanere chiuso in cella e usciva all’aria aperta per attenuare la fiamma interna che lo divorava; e l’intensità dell’amore di santa Caterina da Genova (1447-1510) era talmente grande che non si poteva avvicinare una mano al suo cuore senza sentire un calore insopportabile”.
Non sono da meno i santi musulmani. “Hasan al-Basri e alcuni suoi compagni andarono da Rabi’a. Essendo notte, ebbero bisogno di una lampada, ma non la trovarono. Rabi’a allora si mise in bocca la punta delle dita, poi le trasse fuori. E fino all’alba continuò a irraggiare da esse una luce, come la luce di una lampada”.
Questi fuochi “intestini” sono anche ambigui, divampano tra sacro e profano.
Cristina di Stommeln, beata mai fatta santa, ex beghina e mistica famosa del secolo XIII, descrisse nel suo epistolario con Pietro di Dacia le strazianti vicissitudini delle proprie lotte coi demoni. Essa racconta, dice Zolla, d’essere “assaltata da diavoli o da fiere o da teschi parlanti, trafitta con una picca da guancia a guancia o da orecchio a orecchio, continuamente arsa da fuochi che le sprigionano dalla pelle e la lasciano ustionata o le coprono di pustole la bocca e le fauci”. Fiamme tanto vere e concrete, che la “sorella che le dormiva accanto è rimasta col naso bruciacchiato. Come non bastassero le sue combustioni interne, è scaraventata nuda nel letame, i diavoli le slogano le braccia, le estraggono i molari, le colmano la bocca di zolfo, le stritolano i piedi”.
III- Percival Lowell, americano, si recò in Giappone col collega George Agassiz nel 1891. Si imbatterono in tre pellegrini che s’inerpicavano su una montagna sacra, l’Ontake, per puri scopi mistici e d’invasamento. I tre avevano preparato l’escursione seguendo i cinque canonici riti propiziatori, insegnati da sette sacerdoti scinto che “allenano alla transe“. Pare che Lowell abbia poi assistito a questi riti sconvolgenti. “Nel quinto”, scrive ancora Zolla in Uscite dal Mondo, “il sacerdote prende una doccia di acqua gelida sempre diteggiando e salmodiando sopra una pipa, finché lancia un urlo e la pipa si accende“.
[in copertina: Morte e fuoco, di Paul Klee]