Oggi, 28 luglio 2023, in gran parte del mondo islamico si celebra la festività dell’Ashura, termine che significa “il decimo giorno” e in particolare il decimo di al-Muharram, o “Mese di Allah”, il primo mese del calendario (che è un calendario lunare). È possibile però che questo giorno fatidico cada anche domani, 29 luglio: tutto dipende dallo stadio del percorso della luna e dalla posizione geografica nella quale si trova il devoto musulmano.
Secondo una certa tradizione, quella dell’Ashura era in origine una antica festa ebraica, perché coincideva con la vittoria di Mosè su Faraone e la fuga delle tribù di Israele dall’Egitto. Ma il Profeta (Pbsl) riteneva che i musulmani avessero un diritto superiore, su ogni altro popolo o Fede, a osservare questa ricorrenza.
Certo il Martirio non è invenzione né appannaggio dei cristiani, ed altrettanto certo, è vecchio come il mondo. Protomartire di tutti i protomartiri fu Abele, del quale resta incerta la nazionalità (e forse anche il Credo).
Lo stessa antichità può essere attribuita all’Automartirio, tecnica religiosa d’autolesionismo che raggiunge e supera ogni vetta conosciuta di Masochismo.
Dei continenti ai suoi tempi appena scoperti, racconta Montaigne: “In un certo regno delle nuove terre, nel giorno di una solenne processione, quando l’idolo che essi adorano è portato in pubblico su un carro di straordinaria grandezza, […] si vedono molti tagliarsi pezzi della lor carne viva per offrirglieli”, e oltre a ciò, “se ne vedono parecchi altri che, prosternandosi in mezzo alla piazza, si fanno macinare e ridurre a pezzi sotto le ruote, per acquistarsi dopo la morte venerazione di santità”.
Per i musulmani di osservanza sciita, il più grande Imām della storia è stato Al-Ḥusayn ibn ʿAlī ibn Abī Ṭālib, il nipote del Profeta Maometto (la pace sia su di lui). A questi l’inviato di Dio, nel giorno della Resurrezione dei Morti, affiderà le chiavi del Paradiso.
Ḥusayn, che si era rifiutato di arrendersi alle truppe del Califfo di Damasco, fu ucciso e decapitato a Karbalā, nell’anno cristiano 680. Con lui perirono settantadue suoi seguaci. La strage concise con il decimo giorno del mese di Muharram: è il giorno dell’Ashura. Da quel tempo, gli sciiti celebrano ogni anno questa ricorrenza inaugurando quaranta giorni di lutto e di dolore.
La scrittrice e giornalista Titaÿna (Élisabeth Sauvy), in visita a Teheran, centro spirituale della religione sciita e capitale dell’Iran, fu testimone di una delle più violente edizioni dell’Ashura – da lei chiamata, più propriamente, “Giorno del Sangue” – che la storia ricordi. Descrisse questo anniversario – difficile chiamarlo Festa – in un libro, La caravane des Morts (1930), che impressionò De Félice (Foules en délire), Canetti (Massa e Potere) e gli Autori dell’indispensabile Livre des Bizarres, Guy Bechtel e Jean-Claude Carrière.
Titaÿna vede pigiata nella capitale una massa urlante di mezzo milione di persone. Tutti hanno il capo cosparso di cenere. Battono la fonte sul suolo, senza mai fermarsi. All’improvviso, le folle fanno silenzio, rinculando, aprono un passaggio, e nelle vene della città santa scorre un corteo di centinaia di aspiranti martiri: uomini che indossano una camicia bianca fresca di bucato, in trance estatica, gli occhi rivolti verso il cielo. Le voci, le grida tornano a risuonare, alte, stridenti. Incitano gli Ossessi della Fede. Nelle loro mani come d’incanto appaiono sciabole dentellate. Simili a automi biancovestiti, salmodiando, ondeggiano, avanzano, retrocedono, senza meta; ma a ogni passo che fanno, con le loro lame mal affilate si battono un fendente sul cranio. Sprizza sangue dalle teste, poi dalle braccia, le spalle: un po’ dovunque imbratta vicoli e strade. Un rosso cupo e scarlatto inonda le vesti bianche e immacolate. Nel parossismo si giunge alle mutilazioni.
Alcuni di questi martiri volontari si aiutano l’un l’altro a morire: i colpi di scimitarra mirano alle arterie. I soldati preposti alla sicurezza pubblica sembrano allora attivarsi, si fanno largo per intervenire, ma cedono presto al contagio della folla urlante, al miraggio della “bellezza del martirio”. Anche loro afferrano le sciabole, si spogliano delle divise, si percuotono, si mischiano ai cortei dei penitenti.
Come un caleidoscopico spettacolo da circo gladiatorio, fatalmente il bagno di sangue attira i bambini nel suo gorgo. Titaÿna vede un ragazzino, veramente piccolo, cavarsi tutto soddisfatto un occhio: corre dai genitori, quelli lo abbracciano in estasi; e lui, al colmo della beatitudine, si strappa anche l’altro, lo tiene in mostra come un trofeo.
All’angolo di una fontana, una madre, stringe orgogliosa al petto un altro pargolo che, onorando il “Giorno del Sangue”, si è mutilato da sé.
Ha detto un autorevole sciita indiano, e la sua testimonianza è registrata da Canetti: “L’afflizione per Ḥusayn é il contrassegno dell’Islam”, per cui “anche in Paradiso piangeremo Ḥusayn”. Si spera che l’Imām, nipote del Profeta (Pbsl) e custode delle chiavi di quel luogo di sublime ricreazione, riesca a consolarli: altrimenti questi infelici metteranno tutti gli altri, quelli che gozzovigliano, in serio imbarazzo.
[in copertina: dettaglio de La battaglia di Karbalā, dipinto su tela di scuola persiana (XIX secolo)]