Quando, il 6 giugno 1929, Luis Buñuel presentò al pubblico la sua opera prima, lo scandaloso Chien andalou, “ci furono perfino due aborti durante la proiezione del film”. Tuttavia – aggiunge con una certa fierezza il regista spagnolo nelle sue memorie – “il film non venne proibito”.
Il copione (se può dirsi tale) di Le Chien andalou fu scritto da Buñuel insieme al suo allora grande amico Salvador Dalí. Entrambi erano “esuli”, spagnoli, a Parigi. Un giorno, al ristorante, si scambiarono immagini di sogni. Il film nacque da lì. L’incubo dell’occhio tagliato con la lama del rasoio, non era una totale invenzione artistica: l’aveva oniricamente vissuto proprio Buñuel.
Parlando del Cane andaluso, il regista ebbe a definirlo “un pubblico appello all’assassinio”. Era un’epoca, quella, in cui l’arte corteggiava il delitto. Secondo il fondatore del movimento, Breton, “il più semplice dei gesti surrealisti consiste nell’uscire per via, con la rivoltella in pugno, e sparare a caso tra la folla”.
Negli ultimi decenni, di questi gesti “gratuiti”, se ne sono visti a centinaia, soprattutto negli Stati Uniti: nazione nella quale gli individui sono armati fino ai denti, e nulla sanno del surrealismo.
Negli anni ’30, e anche oltre, non era concesso a nessun surrealista abiurare le proprie idee, né in pubblico, né in privato.
Per chi si macchiava di questa colpa, veniva istruito un processo in piena regola, presieduto da Breton, capo indiscusso della corrente d’avanguardia.
Buñuel racconta nel suo libro autobiografico Dei miei Sospiri Estremi come davanti a questo Tribunale inflessibile venisse trascinato persino Salvador Dalí, nonostante fosse (o forse proprio per questo) il personaggio più in vista, e di successo, dell’intero movimento.
Il pittore aveva partecipato a New York a un ballo in maschera organizzato da Caresse Crosby e da altri miliardari amanti dell’arte, e vi aveva accompagnato la moglie, Gala, “travestita da baby Lindbergh assassinato”. Di fronte alle reazioni scandalizzate di tutti i ricchi invitati, e dei giornalisti presenti, Dalí aveva fatto immediatamente marcia indietro, raccontando alla stampa che Gala impersonava un sanguinoso e complicato complesso freudiano. La spiegazione, non si sa perché, tranquillizzò gli astanti, che trassero all’unisono un sospiro di sollievo.
Ma non la pensarono così i surrealisti francesi. L’artista, a Parigi, dovette discolparsi di aver pubblicamente fatto ammenda, abiurando quel sublime gesto surrealista. Durante il processo, lo riferisce Buñuel, “Dalí era caduto in ginocchio e, con gli occhi pieni di lacrime, le mani giunte, aveva giurato che i giornalisti avevano mentito e che lui aveva sempre detto, sempre affermato, che si trattava proprio di baby Lindbergh assassinato”.
Salvador, fu ambiguo anche nelle sue simpatie, all’epoca della guerra civile spagnola. Pare (lo racconta ancora Buñuel nell’autobiografia) abbia proposto alla Falange fascista vincitrice “un monumento commemorativo piuttosto stravagante. Avrebbe voluto far fondere insieme, mischiate, le ossa di tutti i caduti. E poi, a ogni chilometro tra Madrid e l’Escorial, piazzare una cinquantina di basamenti sui quali bisognava sistemare gli scheletri fatti con le ossa originali. Scheletri via via sempre più grandi. Il primo, alla partenza (Madrid) di qualche centimetro appena. L’ultimo, all’arrivo (Escorial), di tre o quattro metri” . Il progetto fu respinto. Senza che l’Arte ne abbia risentito.
Di exploit e di invenzioni come queste Dalí disseminò la propria vita, o, forse sarebbe meglio dire, le interviste sulla propria vita.
Buñuel nega ad esempio che “la vista degli scheletri dei dinosauri”, durante la visita a un museo di storia naturale, abbia potuto eccitare l’amico Salvador fino “al punto da fargli sodomizzare Gala in un corridoio”. Si tratterebbe, secondo il regista, di innocenti bugiole escogitate per “scandalizzare il pubblico americano”.
Non c’era niente di più appagante per Dalí che essere eccessivo e provocatorio in sommo grado. È poi da vedere quanto con i suoi gesti eclatanti sfidasse davvero l’opinione pubblica: il fatto d’essere applaudito e inondato dal successo, doveva almeno indurlo al sospetto. Breton, vendicativo, anagrammò il suo nome; ne venne fuori: Avida Dollars.
Dalí si riteneva personalmente un Genio: questo fu anche il suo alibi. Nessuna critica poteva più toccarlo. A Carmelo Bene disse che lui non sarebbe mai stato dalinien, perché soffriva ancora: e soffrire è da artisti, non da Geni.
Chiedo perdono se, per parlare di Dalí nel giorno anniversario della sua nascita, ho utilizzato come fonte soprattutto un libro del suo (non si sa quanto) amico Luis Buñuel. D’altra parte, è mia personale opinione che solo con Buñuel – ancor più che con Dalí – il Surrealismo abbia attinto il culmine delle proprie possibilità: e ciò essenzialmente grazie all’ironia e alla grazia con la quale Luis manifestava, nei film, la sua adesione a certe dottrine “totalitarie” in senso artistico.
Luis era un anarchico integrale, raffinato, colto e garbato, insofferente a ogni costrizione. Si definiva così: “Sono ateo, grazie a Dio”.