I- Quando si dice di qualcuno, che è morto, scuole di pensiero divergenti possono prospettarci che, come morto, “non c’è più”, oppure che, anche da Morto, “c’è sempre e ancora”. Il Morto, a esempio – per tutte le credenze religiose –, è un’entità che non è più sulla terra, ma che va rispettata, pregata, e in certe occasioni persino consultata.
Ora, non è che, una volta svuotati o posseduti dalla Morte, subito, si diventa dei Morti. Non è così semplice.
Lo studioso Werner Fuchs ci ricorda che – agli albori della civiltà, o tra i “primitivi” nostri contemporanei –, l’esser Morto non è una disgrazia, o un evento clinicamente accertabile, ma uno “stato civile” vero e proprio, al pari, che so, dell’esser celibe o ammogliato, militare o borghese.
Non c’è automatismo dopo il decesso, e un trapassato, prima d’esser giudicato e onorato come Morto, dev’essere riconosciuto tale dalla consuetudine ma soprattutto da un’Autorità che lo certifichi.
Un cadavere deve meritarsi l’anagrafia di Defunto.
È per questo motivo che i Funerali sono fondanti, per qualsiasi Consesso Civile – compreso il nostro. Esequie complete e tradizionali assicurano e agevolano l’accesso dell’Estinto alla virtuosa Comunità dell’Aldilà. I riti vanno però compiuti con precisione assoluta: altrimenti, fosse anche per un errore veniale o involontario, un Morto lo si perde chissà dove .
È importante perciò – per i sopravvissuti –, che l’estremo omaggio funebre occulti il cadavere nel modo più “onorevole” possibile. E più “fuorviante” per il Morto stesso.
Trionfo dell’ipocrisia opportunista, terra e fuliggine negli occhi del Morto e del Vivo, i Funerali, visti con un’ottica meno partecipe, possono tranquillamente essere scambiati per “traduzioni”. Traduzioni “carcerarie”, poliziesche.
Si porta il defunto, controllandolo a vista, tenendolo immobilizzato nella bara, in carri piombati camuffati, durante sorvegliatissimi cortei funebri: poi, perché non fugga, lo si mura sotto mucchi di pietre cementate o dietro lapidi infrangibili. I cimiteri sono le “Prigioni”dei Morti.
È opinione del dotto Delumeau che “le pesanti pietre tombali delle nostre chiese e dei nostri cimiteri” siano state concepite come “un mezzo – spesso inefficace – per impedire ai morti di frequentare il mondo dei vivi” [La Paura in Occidente, 131]. Non è gratuita immaginazione insomma, quella di Kafka: il suo Custode della Cripta è un uomo terrorizzato, precocemente invecchiato e incanutito dalle lotte che deve sostenere ogni notte con i Trapassati, affinché non evadano dal Camposanto, prendendo la Via del Ritorno.
In tutte le tradizioni e le credenze religiose, compare un Custode del Regno delle Ombre – ed è pacifico che il compito del Guardiano sia innanzitutto quello, non di proteggerli, ma di non far scappare i defunti.
II- Di norma tutte le culture hanno più o meno accettato, o tollerato, che i morti ritornino come fantasmi, ma si sono ribellate costantemente e con ogni mezzo a che i trapassati ritornino in carne e ossa sulla terra. Per questo le crociate contro zombie e vampiri sono sempre state particolarmente frenetiche e cruente.
Si rispetta il Morto, a ben guardare, solo se e quando fa il morto. In società poco evolute – o meno tartufesche della nostra, come quelle “selvagge”, o contadine, a noi contemporanee –, si usa perciò condurre via il defunto dalle case “attraverso il tetto o con i piedi davanti, affinché non ritrovi la strada per tornare indietro”. Per scongiurare quest’evenienza, il funerale segue un sentiero tortuoso, e diventa una gimkana o un labirinto proiettato dentro un gioco illusorio di specchi: “il percorso tra l’abitazione ed il luogo della sepoltura può essere interrotto da tombe simboliche”.
Anche le esagerazioni folcloristiche del dolore e del lutto, osservate con ironia dai viaggiatori illuminati in ogni Meridione, nascondono in verità una grande astuzia. Con strepiti, lamenti esasperati, e un gran baccano, già a partire dalla veglia funebre, congiunti e complici assordano il defunto, lo confondono, approfittano del suo debole lume di coscienza. Così che, frastornato, il morto non capisca dove stanno per condurlo, e per quali strade. Per lo stesso probabile motivo, tra gli Ebrei, durante le esequie, “si buttava polvere negli occhi dei morti”. L’usanza è rimasta in certi riti moderni, soprattutto in nazioni protestanti: si getta una manciata di terra, e, invece degli occhi, si imbratta la bara. Ma lo scopo simbolico è lo stesso: il parente dà l’esempio e “acceca” e seppellisce il morto perché non riconosca la strada del ritorno.
Le cerimonie primitive erano più drastiche, ma il loro “spirito” permane ancora, da qualche parte, sulla terra. Gli indigeni del fiume Herbert, nel Queensland meridionale – avverte Frazer – sembrano amare e riverire i loro cari estinti in modo encomiabile: per esempio, tornano a riempire continuamente la tomba di cibo, acqua, ornamenti e armi appartenute al morto, perché la sua permanenza nell’Aldilà sia piacevole. Tuttavia gli stessi congiunti e amici, durante la sepoltura, “generalmente gli spezzano le gambe per impedirgli di vagare di notte”, e allo stesso scopo gli imbottiscono lo stomaco di pietre. In Africa, “per costringere certi defunti a non tornare più, si mutila il loro cadavere prima di inumarlo; si rompono per esempio i femori, si strappa un orecchio, si taglia loro una mano: per vergogna, per impossibilità fisica, saranno costretti a restare dove sono”. “Prima di lasciare un cadavere i Wakelbura dell’Australia solevano mettergli dei carboni accesi dentro le orecchie per tenere lo spirito dentro il corpo, finché non se ne fossero allontanati tanto che non li potesse raggiungere”.
Si vuole dunque trattenere il Morto a tutti i costi nel sepolcro. E l’anima, pure, deve rimanere laggiù nel suo cadavere, affinché, morendo, l’uomo, o la donna, non si vendichino di chi resta vivo.
Conferma, oracolare, il poeta Dylan Thomas: “Bury the dead for fear that they walk to the grave in labour”: “Sotterra i morti se hai paura che vadano alla tomba con le doglie”.
III- Nonostante ogni trucco illusionistico, non è che il Morto non si accorga che sta per essere gabbato, fasciato come una mummia e “tradotto” in un carcere dove per lui non c’è né via di fuga né ritorno. Allora cova la sua rivalsa, soprattutto contro i vivi che gli sono stati più prossimi e che, adesso scopre, hanno solo finto di piangerlo e di amarlo. In molte pratiche funerarie “primitive” – anche a noi contemporanee –, è quindi ovvio che i parenti stretti del morto, e persino i suoi amici, cerchino, mentre quello è deposto nella bara, o sulla pira, di ingraziarselo, placando i suoi furori e la sua invidia. I maestri di quest’arte ipocrita di blandire il Morto, non priva di pericoli e di sacrifici, si trovano indubbiamente nell’Africa Nera. Quando muore un Cafro, abitante di quelle torride zone del pianeta, mentre lo si interra, “tutti i parenti più prossimi del defunto si tagliano il mignolo della mano sinistra, e lo gettano nella fossa”.
C’è, in atti come questi, una Logica del Lutto, che appare fin troppo simile in ogni tipo di cultura e civiltà, – considerate “progredite” o meno.
Il lutto (parlo del costume temporaneo, non della tonalità dell’anima) viene esercitato non tanto per adeguarsi alle imposizioni della comunità, né per compiacere l’apparenza mondana, ma per “soddisfare” e per “saziare” definitivamente il morto.
In certe tribù di cosiddetti “selvaggi”, chi è Defunto – anche se è stato ben inumato –, finché possiede ancora un misero resto di carne, non può aspirare al titolo di Antenato. È un contemporaneo dei Vivi, che può ancora nuocere loro. Se ha un rimasuglio di nervi, muscoli, o tendini, s’offende, si inquieta e s’adìra come un vivo qualsiasi. Perciò molto spesso è un tabù, ed è proibito a tutti, farne il nome. “Fra le tribù dell’Australia centrale”, nota Frazer ne Il Ramo d’Oro, “nessuno pronuncia il nome di un morto durante il periodo del lutto, a meno che non sia assolutamente necessario, e allora lo sussurra appena per timore di disturbare o infastidire lo spirito che ancora s’aggira vicino in forma di fantasma. Se lo spirito sente dire il suo nome pensa che i parenti non lo piangono come si deve; se il loro dolore fosse sincero non potrebbero dire il suo nome così leggermente”.
Se ne evince che il Lutto non nasce, come credono i moderni, come forma di “rispetto” per il Morto, ma per una forma di scongiuro, che decade quando il defunto smette di incutere Terrore. Se il morto si ritiene sufficientemente compianto, non torna indietro, neppure in sogno. Nell’inconscio scavato da Freud, noi occidentali portiamo sicuramente tracce involontarie, ma profonde, di questo tipo di Esorcismi. E ce ne sentiamo intimamente colpevoli, perché talvolta riguardano persino i nostri congiunti più stretti e quelli che abbiamo più amato.
[dalla Fantaenciclopedia]
[in copertina: Morte e Vita, di Gustav Klimt (1910-15)]