I- La Voce nella tempesta dei Segni
Stabilito che i Sensi sono i nostri principali strumenti per conoscere il mondo esterno, è lecito domandarsi allora se il Linguaggio non sia tra essi uno dei nostri Sensi ulteriori, anche se di sicuro quello meno indagato o catalogato come tale.
Chi riceve un telegramma o una e-mail, che gli annuncia un lutto, li legge, e piange: esattamente come se fosse in presenza d’un caro scomparso. In che modo possiamo ascrivere questa esperienza solo alla “Vista”?
Il Linguaggio, inteso come “Senso”, avrebbe dunque un ruolo attivo, e non solo recettivo, nella formazione della nostra coscienza e nell’apparato delle nostre percezioni: in quanto parte dalla Mente e dal Corpo e ritorna al Corpo e alla Mente (contrariamente all’Immaginazione, che permane nella nostra Mente).
E certo non ci sarebbe Linguaggio se non ci fosse stata all’origine, una Voce che cercava di comunicare cogli altri.
Perché noi esploriamo di continuo il mondo, mandando in avanscoperta solo la nostra Voce.
A lei diamo il compito di “aumentare” le nostre impressioni, ricevendo in cambio della sua emissione stimoli esterni o interni o informazioni di qualità assolutamente diversa dall’usuale.
Propongo, in questa sede, solo un esempio – per quanto possa sembrare anche sciocco – per dimostrare l’assunto.
Se uno di noi ode un rumore nella stanza vicina o se invece sentiamo suonare il campanello, e dietro la porta di casa chiediamo “chi è?”, e una voce ci risponde: “Sono io”, a quale universo sensoriale fa riferimento questo evento? Non ci vediamo, non ci annusiamo, non ci tocchiamo, non ci gustiamo. Ci “ascoltiamo”, certo – ma noi domandiamo, espandendo la Voce, che quel rumore cessi d’essere udito come rumore: vogliamo saperne di più, vogliamo che si identifichi, prima di annoverarlo tra le nostre sensazioni.
Come quando, al buio, nel dormiveglia, spalanchiamo gli occhi, se abbiamo l’impressione che un intruso si muova nella nostra stanza, facciamo appello a un organo preciso dei nostri Sensi, ma inutilmente, e allora chiediamo soccorso alla Voce, per apprendere qualcosa che altrimenti non sapremmo.
“Non si ode solo con le orecchie, ma anche con la voce” – rivelò Walter Benjamin, dopo aver assunto dell’hascisch. Il filosofo diede – durante l’esperimento con la droga –, la seguente spiegazione: “nell’ebbrezza la voce non è soltanto un organo spontaneo ma anche un organo ricettivo; parlando essa in un certo senso analizza ciò di cui parla: quando parla ad esempio dei gradini di pietra di una scala, recepisce ricostruendole nella propria sonorità le cavità della pietra porosa”.
La mia Voce dunque, all’interno di precise esperienze, è un senso considerevole “attivo”, non passivo. Io so che possiedo, con la Voce, un organo di conoscenza e di sensibilità, pari agli altri e in grado quanto gli altri di “sondare” il mondo esterno, avvolgendolo come in un manto sonoro. Se non avessimo la Voce, e senza il “senso” della Voce, sarebbe incomprensibile, ad esempio, la Poesia – che, all’origine, non fu certo un prodotto meramente intellettuale.
Per secoli si è dibattuto se la Voce sia flusso aereo, spirituale, o al contrario materia, se la Voce non abbia insomma una sua concretezza.
Nelle litanie di Preghiera, nel Canto, nelle formule magiche, in infinite altre circostanze, sicuramente essa possiede una “consistenza”.
La Parola detta o cantata ha lo scopo, appunto, di avvicinarsi al suo oggetto quanto più possibile. La Parola della Poesia recitata, proprio come quella del posseduto dall’hashish, tocca concretamente le cose (che rappresenta nella loro “aura” e essenza) – le percorre sillabando, le gusta, le misura, approva o disapprova.
Il “Senso” della Voce risiede: nel domandare. Questa è l’invenzione suprema del Linguaggio. Il punto interrogativo, credo, non esiste in Natura. E non esisterebbe senza l’intonazione che diamo alla Voce, piegandola alle nostre intenzioni. Lo dimostra chi, per disgrazia, non possiede questo dono: la Voce.
Isabelle Repin, citata da Oliver Sacks in Vedere Voci, ha scritto: “Molti bambini [sordi, e quindi muti] presentano una notevole deficienza linguistica: non possiedono lo strumento linguistico consistente nella forma interrogativa. Non è che non conoscano la risposta a una data domanda, è che non capiscono le domande” in quanto tali. Per intendersi con loro, gli insegnanti dovranno scomporre le domande, utilizzando manualmente il Linguaggio dei Segni, in una serie di asserzioni, alle quali sia possibile anche rispondere “no”.
II- L’Originale come un’Eco
Esiste una Teoria della Relatività che riguarda la Luce, la velocità della Luce, e ha dato luogo a paradossi famosi, come quello dei due gemelli. Uno di loro rimane sulla Terra; l’altro viaggia nello Spazio. Quando si rincontrano per festeggiare il compleanno, a casa loro, uno di loro sarà un bugiardo, perché è più giovane del fratello. Di tanto, più giovane, quanto più prossimo è stato il suo viaggio alla velocità della Luce.
Rodolfo Wilcock ha fatto giustamente notare – non è stato il solo – che, oltre a quella della Luce – sfiorata ancora fantascientificamente, avveniristicamente, dalla Letteratura del XX secolo – si poteva considerare la Velocità della Voce, che, anche se più prosaica e abbordabile, per creare lo stesso tipo di paradossi. “Per esempio: l’uomo può volare a velocità maggiore di quella del suono; teoricamente, perciò, potrebbe gridare qualcosa durante il volo e poi fermarsi più avanti per aspettare che giunga la propria voce”.
Lo stesso Wilcock però ha denunciato la difficoltà pratica di ascoltare quest’ “Eco senza Origine”, in cui non ti giunge la copia, il riflesso sonoro di quanto hai già detto e sentito pronunciare da te stesso, ma proprio l’originale della tua Voce.