Che significa, in senso stretto, “somigliare”? Nel racconto di Henry James The Real Right Thing, un pittore, che vuole ritrarre degli “ideali” aristocratici inglesi, scarta quelli veri, e prende come modelli una coppia di popolani italiani. Si sa che la realtà non soddisfa mai l’artista, e che per molti di loro il falso, quando è intriso di significato, è più vero del vero. Ma che dire quando si scopre che anche l’opinione pubblica, ordinaria, si comporta allo stesso modo? L’importante non è la Verità – è: non deludere le attese.
Fiedler, per esempio, ci ricorda in Freaks che il nano Franz Ebert, vissuto nel Novecento, “assomigliava talmente al bambinetto ideale, più di qualsiasi autentico infante, che la sua immagine servì per anni a reclamizzare alimenti e borotalchi per i più piccoli”.
Aneddoti di questo tipo non sono certo isolati. Charlie Chaplin raccontò a Mary Pickford che, presentatosi in incognito a un concorso per sosia di Charlot, fu quasi scartato dalla giuria perché non somigliava affatto al suo “modello”. Secondo Daniel Pennac (Ecco la Storia), Chaplin arrivò terzo (o, come minimo, sesto). Per Mary Pickford si piazzò solo ventesimo.
In generale gli studiosi ritengono che questa sia una leggenda priva di fondamento – tuttavia, Charlie Chaplin, che ne era a conoscenza, non la smentì mai.
Così, volendo rispondere alla nostra domanda iniziale: per essere autentici o meglio “autenticati” nella nostra Identità, siamo obbligati non a somigliarci, ma – al contrario – a somigliare all’Ideale o alle Aspettative che gli altri hanno di noi o su noi stessi.
In questo senso, anche la storia di “Iron Eyes” Cody, attore cinematografico attivo negli Stati Uniti, (3 aprile 1904 4 gennaio 1999) è davvero esemplare. Nella sua lunghissima carriera, Cody interpretò per quasi duecento film un personaggio tipico: il Capotribù Indiano, il guerriero pellerossa. Non parlava molto, non aveva bisogno di exploit recitativi. Emanava dignità, orgoglio, appartenenza a una storia antica e offesa. Affermava, che suo padre era Cherokee, sua madre Cree. Era diventato il simbolo di celluloide dei Nativi Americani, si batteva per loro e era fiero di rappresentarli.
Per due volte era stato sullo schermo Crazy Horse, il leggendario eroe che aveva sgominato il Generale Custer e le sue truppe a Little Bighorn. Era stato diretto da Raoul Walsh (The Big Trail, 1930, con John Wayne), da Cecil B. De Mille (Unconquered, 1947), da Delmer Daves (Broken Arrow, 1950), Billy Wilder (L’asso nella manica, 1951), Henry Hathaway (Nevada Smith, 1966). Ma la vera popolarità l’aveva raggiunta nel 1948 in un film leggero, grazie al ruolo di “Iron Eyes”, il capo indiano che cattura Bob Hope in Viso pallido (The Paleface). Quel nome, “Iron Eyes”, gli rimase indosso per il resto della vita. Un’esistenza che Cody passò, anche in privato, mai abbandonando costumi, abiti e abitudini della “sua gente”.
Dal 1983 il suo nome brilla nella “Hollywood Walk of Fame”. Nel 1995 fu onorato con un premio dall’American Indian Community degli Stati Uniti, per la fedeltà dimostrata, in tutta la carriera, ai valori ancestrali, essenziali, del suo popolo. Aveva 91 anni e morì 4 anni dopo, a 95.
Con una diversa reputazione, però, e in tutt’altro clima.
Era già vecchissimo nel 1996, quando una nube di pettegolezzi lo avvolse fino a offuscare la sua fama cristallina. Un periodico, “The Times-Picayune” di New Orleans, sostenne che nelle sue vene non scorreva nemmeno una stilla di sangue indiano. Non era un Pellerossa. Cody rispose infuriato a quest’attacco, rispolverando, a una bella età, il suo spirito guerriero. Ma le prove erano schiaccianti. Con apprezzabile cura giornalistica, i cronisti riesumarono i suoi certificati di nascita e quelli dei suoi genitori.
“Iron Eyes” Cody si chiamava in realtà “Espera Oscar de Corti”: era d’origine italiana. Era nato in Louisiana nel 1904, è vero, ma il padre, Antonio de Corti, e la madre, Francesca Salpietra, venivano dalla Sicilia. Fresca immigrazione. Di quelli bollati a Ellis Island come “Southerners”, “Meridionali”: ultimo gradino della scala sociale tra i nuovi Americani.
Si vede, da storie queste, quanto lo Stereotipo valga più delle “radici”.
Cody (nome che adesso, anche all’ascolto, ci appare subito come una deformazione della pronuncia: “Corti”), somigliava all’Indiano Pellerossa Ideale, e tanto era sufficiente, per chi lo scritturava, per chi lo ammirava. Non c’era bisogno di richiedere supplementi d’indagine sulla sua vera identità. Anche la sua metamorfosi in Nativo, la convinzione con cui difese le sue false generalità, non sono eccezioni, ma la Regola, in casi come questi. [Ne ho parlato a lungo nella Fantaenciclopedia (voce: “Verità & Menzogna”)].
Espera Oscar “Iron Eyes” de Corti morì da Indiano, e questo è certo. Ne fa fede la lapide che volle sulla sua tomba, e che recita, come fosse rivolto al Grande Spirito:
“Rendimi pronto di stare innanzi a Te con occhi specchiati e retti. Quando la vita svanisce, come il tramonto che svanisce, possano i nostri spiriti stare davanti a Te senza vergogna”.