All’interno di quella sconfinata casistica di cultura paradossale, che è la Civiltà giuridica, un ruolo a parte spetta alle leggi militari di tutti i tempi.
A Roma, sotto gli imperatori, poteva accadere questo: “Il soldato che tentava di uccidersi per sfuggire al servizio era condannato a morte; ma se poteva dimostrare che vi era determinato da qualche motivo scusabile, veniva soltanto espulso dall’esercito”.
Analizziamo questo passo come se i comportamenti umani fossero dettati dalla Logica (e non lo sono, se il nostro metro rimane la razionalità “normale”). Organizziamolo secondo lo “scopo”. Il fine del soldato è: essere esentato dal servizio – in generale: dal servizio militare; in particolare: da una corvée decisamente faticosa. Allora il milite si uccide, ottenendo il suo obiettivo. Ci può sembrare un gesto sproporzionato, ma ha una sua ragion d’essere. Purtroppo però il piano fallisce, e al soldato non riesce il suicidio. Messo in allarme, l’esercito lo cattura, lo processa, lo condanna a morte, lo uccide.
Quindi il soldato ottiene, a spese dello Stato, entrambi i suoi obiettivi, quello intermedio, di morire, e quello finale, di evitare le fatiche del “servizio”. Possibile che lo Stato non si accorga di questa contraddizione lampante? Che lo Stato si faccia raggirare in questo modo, favorendo chi invece vuol punire?
Tuttavia, incomprensibilmente, il soldato fa appello, chiede di essere ascoltato, l’ottiene. All’epoca degli Imperatori, ma anche prima, la Corte Marziale era rinomata per la sua severità e la sua ferocia, “ed era massima inflessibile della disciplina romana” – ammonisce Gibbon – “che un buon soldato dovesse temere i suoi ufficiali più dei nemici”.
Non si sa come, però, l’aspirante suicida – nonché, sicuro lavativo –, riesce a commuovere il suo tetragono uditorio. Racconta che sì, voleva evitare la leva, o la corvée, ma per un motivo perdonabile, e per questo aveva tentato di uccidersi. Ripeto: è lo stesso uomo che poco prima desiderava ardentemente la morte e che, magari, solo per caso era stato trovato a penzolare da un gancio, mentre era ancora vivo.
Scampato chissà come a una sentenza che già sembrava scritta, il militare è assolto. Viene, allora, espulso dall’Esercito: si trova, in questo modo esentato dal servizio, cioè proprio quello che voleva ottenere suicidandosi. Lo Stato gli risparmia qualsiasi passaggio intermedio, e gli consegna direttamente il suo primario obbiettivo. Con tanto di sentenza del Tribunale militare.
Questo milite ignoto baciato dalla Sorte, ma ipotetico, o dalla Legge romana, fa pensare al soldato vero di Kleist. Kleist, letterato geniale, fu anche impareggiabile giornalista, e raccontò sul suo periodico un fatto realmente accaduto nel Settecento, che era stato citato fino allora solo nei manoscritti lasciati da Peter Friedrich Röding.
Un soldato si era allontanato senza permesso dal servizio. La legge stabiliva, in questi casi, di punirlo con la pena di morte: tuttavia tanto rigore si era un po’ attenuato, nel tempo, e, pur non mutando il codice militare, era prassi che il giudice comminasse all’insubordinato solo un’ammenda. “Ma il nostro soldato, che probabilmente non aveva voglia di sborsare il denaro, dichiarò, con grande costernazione del magistrato, di voler morire come la legge prescriveva”. Né, valsero, a convincerlo, i consigli amicali, il richiamo al buon senso, persino le lusinghe: “quello era stanco della vita e voleva morire. Così al magistrato, che non voleva spargere sangue, non rimase altro che rimettere la multa al briccone, e financo rallegrarsi quando questi dichiarò che, viste le circostanze, decideva di restare in vita”.
Ci sono, nel campo della disciplina militare, norme che in apparenza sono molto più inflessibili e infrangibili di quelle dei codici civili e penali; ma poi la tolleranza dei giudici, oppure certe disposizioni che si rivelano piene di spiragli, invogliano il giocatore d’azzardo (e tra i militari abbondano i rabdomanti della Fortuna) a scommettere contro la loro applicazione. Forse il soldato “ribelle” di Kleist era proprio un giocatore d’azzardo di quel tipo: uno spericolato avventuriero e bluffatore che non voleva lasciare sul tavolo da gioco della vita neppure mezzo scudo.
Durante l’Ancien Régime, in Francia, in una Fiera di san Lorenzo, si presentò un giorno un Pulcinella, gobbo davanti e di dietro. Erano, quelli, – racconta Chamfort riferendo l’episodio –, tempi in cui “l’amministrazione risultava quanto mai insulsa e folle”. I gendarmi, che appartenevano a un corpo militare e avevano il compito di vegliare sulla pubblica tranquillità, l’affrontarono sospettosi e gli chiesero «quale fosse il contenuto della gobba anteriore. “Ordini”, disse. “E quella posteriore che cosa contiene?” “Contrordini”».
Fu spedito immediatamente in gattabuia. E non si sa quando ne uscì.
[in copertina: particolare de L’esecuzione dell’imperatore Massimiliano, di Edouard Manet (1868-9)]