I- Provo cordoglio, e non accuso dunque nessun infelice d’esibizionismo: ma c’è forse una componente teatrale, o spettacolare, in certi suicidi, uccisioni “pubbliche” di se stessi perpetrate anche da persone insospettate, che hanno pudicamente serbato fino all’ultimo il segreto delle proprie decisioni senza appello.
Se l’argomento, è questo, ed è fondato, allora inevitabilmente il nostro pensiero, titubante, timoroso, riverente, corre al ricordo di Evlalija Pavlovna Kadmina, l’attrice russa che si avvelenò davanti a tutti sulla scena mentre recitava in un dramma di Ostrovskij: Vasilisa Melentyeva.
Il fatto avvenne nel 1881, a Char’kov. I giornali ne parlarono subito, con pettegolo stupore. Ogni illazione fu lecita, e diede luogo a chiacchiere a stento sopite, o dimenticate (*).
Nell’agosto dell’anno successivo a quel suicidio, Ivan Turgenev cominciò a scrivere un racconto ispirato alla misteriosa tragedia di Evlalija Kadmina. Lo terminò in due mesi. Tanto gli fu sufficiente per comporre un capolavoro: “Post-Mortem”, pubblicato anche col titolo Klara Milič .
Non conosco i particolari che accompagnarono la fine dell’attrice. Ma non dovrebbero discostarsi troppo dalla descrizione che, nel racconto, ne dà Turgenev:
“Ha portato con sé in teatro la fiala di veleno, e l’ha bevuta prima di iniziare, e in queste condizioni ha recitato tutto il primo atto. Con il veleno in corpo! Che forza di volontà! Che carattere! E dicono che non ha mai interpretato nessun ruolo con una simile efficacia! Il pubblico non sospettava niente, applaudiva, la richiamava… appena calò il sipario, lei cadde lì, sulla scena. Convulsioni… convulsioni, e un’ora dopo era già morta”.
Perché si uccise, Evlalija Kadmina? E perché in quel modo pubblico, calcando le tavole del palcoscenico, nel contesto cruciale di una recita? Non lo sapremo mai, credo. Di quanto è accaduto veramente, ci resta solo la testimonianza magistrale di Turgenev.
Sotto il simbolo di Klara Milič, lo scrittore non si limitò a mutare il nome dell’eroina: diede al suo gesto inattesi risvolti, profondi moventi, e ne dedusse sviluppi che nessuno avrebbe mai immaginato. Probabilmente, solo con la potenza della Fantasia, attinse il nucleo doloroso e sorprendente di questa tragedia.
Turgenev sembra proporre al lettore questa spiegazione: la sua eroina ha atteso per tutta la vita l’illuminazione dell’amore e, quando è giunta, ne è rimasta delusa, ferita, attonita. Parrebbe la ripetizione di un canovaccio ovvio e popolare, ma non è così. Nella storia d’amore di Klara non vi è nulla di “esteriore”, di esprimibile e di condivisibile. Ella scopre di amare un giovane – il primo della sua vita – benché non lo conosca, benché i due mai si siano parlati, né sfiorati, quasi. Si sono visti solo di sfuggita, da lontano, durante un concerto di lei, che è anche una splendida cantante.
L’incontro con l’amato – che tutto ignora, del suo trasporto – avviene poi veramente: ma è breve, insulso, e fatale. Klara nulla gli rivela: anzi, si pente immediatamente d’averlo cercato; fugge, tradita e “fraintesa” da chi ama. Nessun sentimento è stato corrisposto, è vero, ma neanche dichiarato. L’anima ha trattenuto il segreto della passione, e il travaglio di questa lotta le ha impresso un marchio sofferente e indistruttibile. Troppo orgogliosa per implorare un’attrazione che doveva essere immediata e reciproca – persino troppo altera per disperarsi –, l’attrice si ritira in provincia, dove riscuote un considerevole ma, per lei, insoddisfacente successo. Finché un giorno, mentre recita Ostrovski, si avvelena e muore, tra gli applausi.
Il mio riassunto della prosa stupenda di Turghenev è sicuramente indecoroso. Ma credo di non avere tradito la trama. Non per questo, il martirio di Klara Milič, appare a noi, lettori, meno enigmatico.
“Aveva paura della morte, ma si era suicidata!”, esclama Turgenev, per bocca di uno dei suoi personaggi. Perché?
Non chiedo: perché si è uccisa. Turghenev ce l’ha suggerito, e ha aperto squarci sulla psiche umana e femminile che davvero non ci aspettavamo. Chiedo: perché, l’epilogo è avvenuto proprio tra le quinte e il proscenio di un teatro, affollato di borghesi disattenti?
Non facciamoci distrarre da quella nota a margine della sua tragedia: che Klara, quella sera, aveva interpretato la sua parte come mai prima di allora. Quasi che l’infelice artista, la fanciulla sfortunata, avesse assunto la morte, come droga, per migliorare – orrore! – la sua recitazione. O l’avesse fatto per aderire maggiormente al suo personaggio, ché appunto un’eroina destinata a una morte atroce, la sesta moglie di Ivan il Terribile – Vasilisa Melentyeva – stava portando sulla scena.
Se vogliamo, però, capire Klara, o meglio Evlalija P. Kadmina, dovremo affrontare il dramma insito in questo suo “esibizionismo”. L’Ostentazione della Morte.
Mi dilungo, ma Turghenev sembra rivelarci qualcosa di assai profondo sull’essenza del Suicidio. Il suicidio ha a che vedere con l’Innocenza: Klara l’ha incontrato nel suo inflessibile desiderio di purezza.
Si potrebbe dire, esasperando, che la giovane si è tolta la vita come il poverello d’Assisi, che si privò degli abiti, pubblicamente. Con lo stesso desiderio di genuinità, il medesimo candore con cui san Francesco, da quel giorno, andò incontro a sua “sorella Morte”. Ma è sufficiente questo, per spiegare lo “scandalo” del gesto di Klara? Come negare la grandezza della sua provocazione, senza farle torto?
Davvero voleva restare, questa ragazza di talento, così ritrosa e pudica, “nuda” della vita, nuda del corpo, e presentarsi come un’Anima intatta, davanti a una platea ottusa che avrebbe euivocato e detestato di sicuro il suo sacrificio? Ma, eppure: come possiamo evitare di pensare che questo morire, sia stato messo in scena proprio per gli Altri? Che la Recita sia l’essenza stessa del suicidio?
Dal gesto estremo di Klara, cioè di Evlalija Kadmina, come per alcune, sceltissime, vicende incomprensibili, lo Spettatore si “ritrae”, come compreso di un orrore “sacro”. Quello a cui il pubblico, e persino noi lettori di Turghenev, abbiamo assistito, “è troppo” per una coscienza comune. Facciamo un passo all’indietro, ci ritraiamo, e non vediamo l’ora di fuggire dal Teatro del delitto. Non è un segno di rispetto, tutt’altro.
Si potrebbe pensare a una primigenia esperienza religiosa: il sacrificio di Ifigenia, per esempio. Nell’universo mitico, tutto è lineare perché sottoposto al Destino. Perfino la vittima può convincere i propri carnefici a ucciderla, perché sa che ciò che le accade è ineluttabile. Anche stavolta sembra così. Di fronte al sacrificio di Klara-Evlalija, ci si inchina, annichiliti, obnubilati da una nube religiosa troppo grande per essere compresa: tanto distante, per noi secolarizzati, è l’esperienza “mitica”. Ci si sente imbelli, e ci si ritira, voltandole le spalle. Persino, con orrore. Siamo noi che non l’approviamo, che non vogliamo capirla.
Allora, posso, senza peccare contro di lei, suggerire un’ipotesi finale su Klara?
È vero, morendo sul palcoscenico, ha dato prova di esibizionismo. Ma cosa ha esibito? Klara muore per “esibire” la tragedia, al di là del Testo Rappresentato.
Perché ella è costretta a esibire la propria tragedia.
Pensiamo pure che abbia bevuto il suo veleno un attimo prima di andare in scena. Così, per non provare la paura di morire, perché doveva concentrarsi sulla parte. La paura non c’entra. Non limita la sua grandezza.
Riflettiamo: il Teatro è stato fin dalle origini un luogo sacro in cui ci si trasfigura. Nel suo desiderio di purezza, Klara ci ha mostrato il Suicidio allo stato “puro”. Che è un atto inseparabile (anche per il miscredente) dal rapporto con un Dio che si nega, e che in qualche modo, come Dostoevskij ha suggerito, rende simili a Dio e al suo potere di vita e di morte. Lo stesso Kafka non ha immaginato che Dio, quando pensa agli uomini, medita il suicidio?
La recita finale è stata per Klara-Evlalija la replica fedele, lo specchio del disincontro con l’amato.
Si comincia a parlare, a “dichiararsi” all’Altro, e ci si accorge che è iniziata la Babele, la Babele dell’Amore, di ogni amore: che non si comunica più, sulla torre vertiginosa della Vita. Non si è al riparo neppure indossando i panni d’un altra, a teatro. Tutto sembra così semplice, perché lì gli uomini accettano la finzione. Invece, si è ugualmente disconosciuti e fraintesi. Doveva, Klara, dire la verità? – al suo amato: che l’amava; al pubblico; che stava morendo?
No, ella esigeva che gli altri intuissero il suo dramma immediatamente, che leggessero in lei, come lei si trovava trasparente e pura in ogni suo gesto. Perché l’amore è e deve essere così. Altrimenti è raggiro, finzione. Anche dal pubblico, quella sera, doveva venire un lamento, un gesto di inaudita comprensione, un gesto di amore, sintonia, di complicità, che non è venuto.
II- Però: non è solo l’avvelenamento inaudito, sulla scena, dell’infelice Kadmina, che ha spinto Turgenev a misurarsi con questa materia di scrittura.
Il Maestro non si è soffermato sui particolari, ha trattato quell’enimmatico suicidio puntando, fin dal principio, sul suo riscatto. Filtrandolo attraverso un prisma letterario che potesse, alla fine, rovesciarne l’esito tragico.
Lo scrittore ha infatti immaginato che il gesto della sua Klara Milič fosse talmente grande, e pietoso, che meritava di essere “compreso”, apprezzato, e che la rendesse degna d’Amore: sia pure “post-mortem”, a posteriori. Immaginato, non è – forse – la parola giusta, perché in suo soccorso era venuta la vita vera.
Turgenev era a conoscenza di particolari che le cronache non avevano riportato. Sapeva – era stata la sua amica Polonskaja a raccontarglielo – che un uomo, non un uomo di poco conto, né un pazzo, ma uno scienziato, biologo, che frequentava i migliori salotti della capitale, un certo Alenicyn, si era innamorato di Evlalija Kadmina. Un amore folle, disperato, perché sbocciato non prima, ma dopo che l’attrice si era tolta la vita.
Allo scrittore lo spunto è sufficiente per trasformare questa storia nella trama di un meraviglioso, lineare, perturbante e solare racconto di Fantasmi.
Turgenev ha fatto in modo che la morte fosse solo un incidente, che separasse provvisoriamente i due amanti; che il loro incontro si potesse ripetere, e che quell’amore dapprincipio incorrisposto non fosse affatto destinato a rimanere per sempre inappagato.
Potenza del Fantastico. Il giovane Aratov, che è protagonista della narrazione, e che ricalca la passione di Alenicyn, prima detestava quasi l’attrice, criticava sarcasticamente il suo talento. Con un giudizio sprezzante, che le viene riportato, induce addirittura Klara Milič a abbandonare una promettente carriera nel bel canto. Egli era ingiusto, naturalmente, come spesso è ingiusto e sprezzante un ragazzo che si sente vicino al momento in cui gli verrà sottratta la verginità.
Poi, a poco a poco, Aratov si accorge di essere innamorato di Klara, della morta Klara.
La passione, a gradi, cresce in lui, e sopraffà e scavalca il crinale che separa vita e morte. Egli rivede, finalmente, lo spettro della ragazza, lo frequenta, le parla. Finché, affascinato, sedotto dalla propria fine prossima e precoce, può finalmente coronare il suo desiderio, congiungersi col Fantasma. E morire, beato, con una ciocca di capelli di lei, stretta nella mano. Una ciocca che non dovrebbe esistere, puro dono dell’aldilà…
Così il racconto si trasforma nella storia di un riscatto, nella riconquista, “post mortem”, della sincronia di due cuori. Che cosa, propriamente, ottiene qui il suo riscatto?
Da studioso della materia, azzarderei: è il fondo mitico dell’intera vicenda – il fulminato “gotico” – che viene risolto e redento dal Fantastico.
La storia di Klara coincide con la Salvezza dal Destino, dal volere del Fato, dalla maledizione del Fraintendimento. Il Suicidio, ci dice Turgenev, non è la fine di tutto, ma una sciarada, un filo d’Arianna snodato oltre il labirinto della Vita. Non fu disperazione: fu un messaggio.
Uccidendosi, Klara si era trasferita in un’altra dimensione, arcana, ma pure raggiungibile. Tutto il suo comportamento, la successione delle scelte, i dettagli della morte in palcoscenico, suggerivano per chi avesse saputo intendere, la soluzione finale. Il giovane Aratov davanti a lei, sulla strada, negandole il suo amore, aveva fatto quel “passo indietro” che l’aveva uccisa – esattamente, come tutti gli altri, gli spettatori che dovevano soccorrerla a teatro, mentre fingevano di avvicinarsi a lei, si erano ritratti, di fronte all’abominevole flagranza del suicidio.
Ora invece, l’amato si decide: fa un passo avanti, osando credere, come atto di fede, che la morte non esiste. Egli finalmente “comprende” Klara, nel suo abbraccio. Naturalmente ne muore, perché questa è la dura legge della Letteratura. Ma il miracolo, in Turgenev, è aver salvato il “lieto fine”, che era il più consono alla “purezza” della storia, proiettandolo nell’Aldilà.
Sotto la luce protettiva dell’Inesplicabile, il Fantastico si ribella finalmente al dominio del Mitico, del “Sempre Uguale”, dell’Ineluttabile, che tutto spiega e riesce a imprigionare nelle sue reti.
[in copertina: La principessa Tarakanova, di Konstantin Dmitrievič Flavickij]