La saga “fantasy” di Dune è uno dei più macroscopici fenomeni di consumo librario dei nostri tempi: già 40 anni fa ne erano state vendute 35 milioni di copie nel mondo, soprattutto nei mercati di lingua inglese. In Italia, e in Francia (dove aveva venduto pochissimo prima che Jodorowsky annunciasse di volerne fare un film) il successo era stato meno folgorante. Il libro capostipite, scritto da Frank Herbert, è del 1965. Da noi, in quel periodo, andava per la maggiore un tipo di fantascienza sociologico-politico-filosofica che consentiva l’accesso alle biblioteche colte solo a pochissimi autori (Bradbury, per esempio, e i cascami dell’Huxley-Orwellismo). Un’inversione di tendenza, sulla scia o all’ombra del trionfo di Guerre Stellari, poteva scoccare con Dune di David Lynch, nel 1984: ma il film, alla sua uscita, venne furiosamente attaccato in America dalla critica compatta, e anche in Italia ci fu, al suo esordio sugli schermi nostrani, un’ingiusta condanna generalizzata.
Abbiamo dovuto attendere qualche anno, se non più di un decennio, perché il genere Fantasy esplodesse anche da noi, grazie al successo cinematografico di Tolkien e delle Serie sulle piattaforme televisive.
Parlandone, nel 1984, sul manifesto, avevo cercato invece, già allora, di mettere in luce le “novità” apportate dalla visione di Lynch, una volta approdato o atterrato sul terreno della Fantascienza di stampo fiabesco:
«Guerre Stellari alla stessa materia imperial-feudale di Dune ha fatto un’opera di sottrazione, concentrandone il misticismo in una sola grande formula: la “Forza”. Lynch, del libro di Herbert, ha mantenuto tutto, ma nel suo approccio esorbitante ne ha cancellato il retroterra dal fascino pericoloso e tutta la zavorra della trama: non c’è più mito, leggenda, fiaba, saga mistica; c’è un “buco nero” che si mangia tutto e dal quale emergono, nel buio, investite da una luce fioca e quasi irreale, figure e immagini “mai viste prima d’ora”.
“Fare ciò che nessuno aveva mai fatto, mostrare quello che nessuno aveva mai visto”, è stata, crediamo, la parola d’ordine di Lynch nel girare questo film scaturito da una materia che gli deve essere tutto sommato poco congeniale, come la Fantascienza. Ebbene se questa era l’operazione, c’è riuscito, facilitato anche da una felice ignoranza del genere e da un livello culturale libresco scarsissimo, che gli ha impedito quindi anche il plagio involontario.
Tutto il film coagula intorno alla scelta del Decor, profondissima. L’intuizione, che il regista americano ha seguito, è quella mescolanza di antico e di nuovo che è il segreto del libro. Stucchi, avori, ori, cuoio, legno, decorano gli interni delle astronavi del futuro. L’imperatore Padisha è, come vuole il suo nome, un personaggio tra Verne e Salgari: è lo zar di Strogoff, e Massimiliano del Messico, è José Ferrer nella parte di Napoleone III prima di Sedan.
Il micidiale strumento di guerra con il quale l’impero dovrebbe opporsi all’attacco dei Vermi possessori del pianeta Arrakis, e del loro profeta e pilota Mua-d’Ib, è un proto-videogioco, dorato come le vecchie macchine di caffetteria, che si manovra manualmente e che ha esiti ridicoli. I boccaporti di accesso ai pianeti nei quali convergono le gigantesche corazzate Stellari, sono serrature d’ottone artigianali, dorate e arabescate con motivi a rilievo. Poi ci sono gli ambienti delle Corti spaziali che ricordano le stazioni più antiche del metrò o la vecchia, grande esposizione universale di Parigi.
Dal Medioevo feudale, ambito nel quale si muovono le fantasiee i rapporti di classe in Frank Herbert, la concretezza storico-visiva e il viaggio “mentale” di Dune hanno virato, decisamente, verso il “Secondo Impero” francese. Nell’immaginario dell’artista Lynch, l’antiquariato borghese va così a spasso per lo spazio. Arrakis, anche detto Dune, è un pianeta-spazzatura popolato di Vermi e ricoperto di polvere: è un deserto perennemente assolato. E non sono di solito vermi, larve di tarli, polvere e sole gli agenti che minacciano il mobilio e la carta da parati? L’interiorità di uomini e donne dell’Ottocento, epoca che dal punto di vista capitalistico, non è mai finita, è arredata come un salotto Biedermeier. In Dune, l’anima che raminga tra le stelle ha introiettato il mondo delle merci esattamente come il piccolo Borghese dell’epoca. Mai visto nulla di simile sullo schermo.
Il film ha una ricchezza e uno spessore compatto che raramente abbiamo incontrato nella Fantascienza filmata, anche se la nota dominante, cupa come l’acqua scura che stilla nel sogno di Mua-d’Ib, può esasperare lo spettatore. Al Lynch che ha prodigiosamente sceneggiato il romanzo (operazione che non era riuscita in precedenza nemmeno allo stesso Frank Herbert) interessa soprattutto proprio questo materiale onirico e questo studio sulle superfici, dove l’acqua non si distingue dalla coltre di polvere che copre un intero pianeta. E in effetti il problema di Lynch, fin da quando era pittore, sono sempre state le superfici. Lo spazio su cui esprimersi non gli era sufficiente. L’attirava (me lo ha detto nell’intervista che segue), “quello che c’era prima della cornice fisica della tela, e quello che c’era dopo il confine fisico della tela”. Così si comporta anche con il Cinema: gli interessa ciò che affiora dallo schermo, ciò che lo percorre. Questa volta, con Dune, ha potuto realizzare un suo sogno: lo schermo si increspa, si vena, e ne emergono bocche smisurate, chilometriche di vermi: 70 miliardi di lire dell’epoca furono spesi per questo e altri prodigi dell’inconscio lynchiano. Tutta la sequenza del viaggio “vermineo” che porta le astronavi degli Atreides da Calandan a Arrakis è superlativa, una vera invenzione che il libro di Herbert lascia solo alla fantasia dei lettori. È un vero e proprio “sogno da sveglio”.
Non so come abbia fatto Raffaella De Laurentiis a pensare di contattare Lynch per questo Dune dopo le difficoltà che avevano già causato il ritiro di Jodorowsky e Dalí (da un’altra produzione rimasta solo sulla carta) e di Ridley Scott (che rinunciò per girare Blade Runner)».
Non si può dire che l’impresa abbia avuto successo, nonostante i pregi e le intuizioni presenti nel film. Il budget lievitò, i capitali si estinsero e inaridirono le fonti di finanziamento, stesso destino d’ogni sorgente d’acqua sull’accecante pianeta Arrakis. Le riprese ne risentirono. Primi piani degli attori presero il posto delle scene di massa. Poi ci furono altri problemi tra regista e produttori. Ragioni per le quali David Lynch non ama citare Dune all’interno della propria filmografia, e l’ha in certo senso rinnegato. Ma quando lo incontrai a Roma, nel novembre 1984, per un’anteprima che anticipò anche l’uscita sugli schermi statunitensi, mi sembrò di diverso avviso.
Ecco il testo dell’intervista che fu pubblicata su “Fare-Night”, inserto del manifesto:
«David Lynch è in Italia per presentare Dune, prima della sua uscita. Il regista di Eraserhead e di Elephant Man ha 38 anni ed è nato negli Stati Uniti, nello stato del Montana. Ha frequentato le scuole d’arte a Boston, e ha iniziato a dipingere. Ma presto si è rivolto al cinema. “Comunque”, sottolinea divertito, “il mio background culturale è zero“. Mentre era all’Accademia, l’American Film Institute gli commissionò un film: Grandmother. Dopo questa prova fu chiamato a Los Angeles, nel 1970. Nel periodo 1972-1976 ha lavorato a Eraserhead (in Italia chiamato anche: La mente che cancella), un capolavoro che non si può definire solo “sperimentale”. Per Mel Brooks, “era il più bel film del mondo” e fu proprio questo biglietto da visita che indusse il comico a finanziare il film successivo di Lynch, The Elephant Man, che ebbe poi sei nomination all’Oscar.
“I miei primi film”, dice oggi il regista, “erano proprio immagini e dipinti in movimento. Durante le riprese non riuscivo neanche a spiegarmi con la troupe perché faticavo a portare le mie idee dalla superficie del subconscio alla realtà”.
Da queste prime opere a Dune, il kolossal di De Laurentiis galattico e multimiliardario, c’è un vero salto, un salto nell’iperspazio, che Lynch ha fatto con modestia, senza cedere però di un millimetro dalla sua visione del mondo: senza tradire la sua ricerca dell’ignoto e delle visioni oniriche, che sono sotto la superficie della Realtà, come dello Schermo Cinematografico.
Il suo mondo, come forse si deduce dall’intervista che segue, non è quello delle parole. Si esprime quasi con difficoltà, anche per difendere ciò che ha dentro e che crede, giustamente, unico, sottratto alle influenze di Hollywood o della grande Cultura…
Adan Zzywwurath:
Io ho trovato il suo film straordinario, Mr Lynch. Ma come pensa che reagirà a Dune il pubblico consueto della Fantascienza cinematografica? Gli appassionati della saga di Herbert (5 libri, dal ’65 oggi) saranno soddisfatti della fedeltà con cui lei ha trattato il testo, ma gli altri, potrebbero essere spiazzati completamente da ciò che vedono…
David Lynch:
So che quando si fa un film di Fantascienza ci sono delle aspettative ben precise da parte del pubblico. Forse Dune è molto diverso dalle aspettative generali, ma per me non è, comunque, solo un film di Fantascienza. È un film che ho tratto da un libro che mi piace molto, e che mi ha posto una grande serie di problemi di realizzazione, a cominciare dalla sceneggiatura…
A. Zz:
Per Eraserhead e The Elephant Man lei aveva ottenuto un controllo totale sulla colonna sonora. Il primo, in Italia, è uscito in versione originale e quindi risultava tutto il suo lavoro sui rumori, e i rapporti tra gli oggetti e il protagonista (per non parlare del vagito del mostriciattolo) erano sottolineati e come dilatati o rappresi grazie proprio ai rumori. Anche per Dune è riuscito ad avere lo stesso controllo totale sul sonoro?
David Lynch:
Certamente! Tenga presente che ho lavorato, in tutti i miei film, da Grandmother in poi, sempre con lo stesso tecnico del suono, Alan Splat. Dune, sia dal punto di vista della colonna sonora, sia da quello della musica, è il mio film più ricco. Molti dicono che questo film ha una “struttura musicale”. Anche l’idea di utilizzare le musiche di Brian Eno è mia: mi sono innamorato di un pezzo dell’album di Eno, Apollo. Comunque ciò che Eno ha fatto per il film è molto più bello di quello che compare nell’album.
A. Zz:
È stato influenzato dalla cultura dei Comic Books o del cartone animato? Glielo chiedo perché in Eraserhead tutte le valenze comiche hanno qualche affinità col mondo classico del cartoon per adulti hollywoodiano, Tex Avery o Chuck Jones, per esempio; e anche in Dune mi sembra ci siano questi richiami: quando il gran bruco sottovetro, autorevole e ieratico, dopo il colloquio con l’imperatore Padisha, si congeda dalla corte, il suo seguito pulisce con grandi stracci il pavimento unto di bava e d’escrementi, come al circo dopo un’esibizione d’elefanti o di cavalli. E il vilain, il cattivissimo Barone Harkonnen, ributtante e stupendo, ha la statura e la gratuità dei personaggi più scatenati del fumetto e del disegno animato.
David Lynch:
No, direi di no. Non ho subito questo influenza e non conosco Tex Avery. Il mondo del fumetto mi interessa, ma marginalmente. Su un giornale di Los Angeles pubblico periodicamente una vignetta che si intitola “il cane più arrabbiato del mondo”. L’immagine non cambia mai, cambia solo il fumetto… ma è molto diverso…
A. Zz:
In Dune, la luce cambia di continuo. C’è il fuori, l’abbagliante deserto, e il dentro, l’interno o intérieur stile “impero stellare”, ma il film è talmente compatto che difficilmente si nota questo alternarsi, anche perché la luce muta addirittura dentro le singole scene. È il lavoro sulla luce che soprattutto la interessa?
David Lynch:
È vero, in alcuni punti del film ci sono luci fluttuanti che si spostano in continuazione. In alcune scene siamo all’aperto, invece. In Eraserhead le luci esplodevano, in Elephant Man, si spegnevano le luci a gas… è così… vorrei sperimentare molte cose con la luce, e questo mi interessa molto per il futuro.
A. Zz:
Anche l’idea originale delle scenografie di Dune deve molto al suo rapporto con la luce?
David Lynch:
Sì… le scene mi sono state suggerite da un mio viaggio a Venezia. Ero in barca e la luce penetrava in un edificio che mi stava di fronte, creando un bellissimo gioco. Allora ho capito che era quel tipo di colori e di riflessi che avrei voluto ricreare per la Corte degli Harkonnen…
A. Zz:
In Eraserhead c’è un verme che grida. Avrebbe mai pensato, tanti anni fa, di girare un film, come Dune, con vermi lunghi 400 metri o un chilometro?
David Lynch:
No, non ci ho mai pensato fino ad adesso! D’altra parte a quel tempo non conoscevo neanche il libro di Frank Herbert! Si vede (risata) che c’era un legame cosmico!
Lynch mi dice che ora prepara un thriller: Blue Velvet, su un ragazzo che vive due storie d’amore in mondi contrapposti, quello della Bellezza, quello della Paura, e un altro film, che tratta di un nano con i capelli rossi che ha problemi fisici e con l’elettricità [è, in nuce, la prima idea di quello che realizzerà sei anni dopo, con le “apparizioni” tra i tendaggi rossi di Twin Peaks].
Poi, prima che l’intervista finisca, il regista si informa su quale giornale scriverò. Gli dico che è un giornale “very leftist”. Lynch sgrana gli occhi e si meraviglia. “Voi pensate che ai film vada fatta una critica politica?”. “No”, rispondo, “una critica ideologica sarebbe riduttiva. Dune non mi sembra un oggetto politico…”. “Oh, good!”, risponde Lynch, battendosi il pugno sulla coscia, visibilmente sollevato e felice».