I- Con la tortura, l’espiazione della condanna finisce per coincidere con l’interrogatorio dell’imputato, e la pena precede l’accertamento delle responsabilità, o la confessione. Il percorso della Giustizia è rovesciato: tanti morirono un attimo prima di ammettere delitti che non avevano commesso. Al tocco del carnefice, in genere, sono gli innocenti che confessano per primi.
Anche l’Inquisizione, con le sue torture, è un’Iniziazione: un esame prolungato in cui il codardo immacolato si libera della propria vigliaccheria, scoprendo sotto i ferri d’essere un reo confesso.
L’ innocente, inconsciamente, crede ancora che la giustizia sia un’ordalia – si stupisce di essere anche solo sfiorato dalla sofferenza, come se l’accusa non lo riguardasse; per questo si confonde, si emoziona, si rende ancora più vulnerabile al dolore. Il giusto aspetta sempre il miracolo. Confessare ciò che non si è fatto non è importante, è un prender tempo, perché come a Teatro è sempre un colpo di scena quello che libera l’innocente dall’angustia.
I colpevoli invece erano fortificati dai loro stessi misfatti, e duravano di più sotto tortura.
Per chi – preda del panico – confessava crimini mai commessi, o per chi affermava il falso pur di liberarsi dai torturatori, era in agguato una sorpresa amara: all’ammissione seguivano immediatamente nuove sevizie. Il suppliziato era in qualche modo tenuto ad addossarsi un crimine peggiore, del quale gli stessi inquisitori, al momento dell’arresto, non avevano la minima cognizione.
Prospero Farinacci, il celebre Farinacius, autore di Praxis et theoricae criminalis, procuratore di Papa Paolo V, ancora nel secolo XVI teorizzava l’uso della quaestio, per scoprire crimini diversi da quelli di cui il prigioniero era accusato o sospettato. Si andava alla cieca, a tentoni, torturando, sezionando, scorticando, come se il corpo e l’anima della vittima fossero vene aurifere di una miniera appena scoperta, la miniera occulta della delinquenza, dell’Eresia.
Ricordiamo che la tortura – quando non sia puro sadismo – si chiama anche, più propriamente, “esame”, cioè “quaestio”. È in sostanza un saggio di bravura o un esperimento in cui si vuol far parlare, direttamente, la carne e non lo spirito dell’esaminato. Si crede insomma che la carne per legge fisica del dolore non possa mentire. La carne viene escussa, approfondita e sfogliata dall’inquisitore come il giudice vaglia le carte prima di emettere la sua sentenza.
Lo stesso carnefice che applica la quaestio, è chiamato dalle autorità a bruciare, a strappare, a torturare i libri proibiti e posti all’Indice. Non c’è contraddizione. Il corpo dell’imputato è come un libro eretico, – per il momento, sigillato da un lucchetto. Compito del boia è dissuggellare la serratura e maneggiarne il contenuto dubbio, come si suol dire, “con le pinze”.
Grazie al lavoro tipografico dell’Inquisizione, la Fede diventa un manufatto visibile, un incunabolo su cui si riscrive pelle e sangue – miracoloso come l’ostia consacrata.
Il condannato, in questo modo, diventava un libro aperto e, infine, uno “spettacolo per se stesso”, ancora prima che per i suoi torturatori.
II- Si tratta ora di capire perché, ancor prima che gli sport dell’epoca moderna, la tortura fu la prima disciplina in cui divenne decisivo il fattore “tempo”. Prima che si inventasse l’orologio meccanico a pendolo, o il cronometro da polso.
La tortura è una lotta con la morte, è la battaglia per sottrarre il corpo sfinito all’ annientamento – ed è quindi emblematico che diventi, per forza, una lotta contro il tempo. È insito nel concetto stesso di supplizio “prolungare il tormento delle vittime”, donare la massima sofferenza possibile, accoppiare il massimo di spettacolarità, con il minimo rischio per la vita.
In un utile compendio sulla questione, George Riley Scott rileva che nei tempi più remoti la durata del supplizio variava da tribunale a tribunale, anche all’interno di una stessa nazione. “Filippo III emise una bolla che la limitava a un’ora. Spesso la vittima perdeva coscienza molto prima dello scadere del tempo previsto. In questi casi il torturato veniva esaminato da un medico per stabilire se lo svenimento era reale o simulato. A seconda del verdetto del medico, la tortura veniva sospesa oppure ripresa”: – a somiglianza degli odierni sport di squadra, che contemplano, come risorsa ben regolamentata, “il recupero” o il “time out”; o come nella boxe, dove si “getta la spugna”: ma quando c’è il sospetto di combine, si rischia di restituire la borsa.
Con l’introduzione del “ tempo di gioco “ nella tortura, si veniva incontro ai desideri dei torturatori più “sportivi”. Avevano bisogno di un handicap, altrimenti, il supplizio “infinito” era infallibile, e otteneva immancabilmente – da innocenti e colpevoli – la confessione. Routine da mattatoio, da volgare macelleria.
Giustamente argomenta Foucault [in Sorvegliare e punire]: “nella tortura, per far confessare, c’è inchiesta, ma c’è anche duello”. Il suppliziato vince “tenendo” e perde “confessando”. “C’è sempre qualcosa della sfida e del torneo nella cerimonia del supplizio”. Sport, e Cavalleria.
Si davano anche casi in cui la tortura, che il giudice utilizzava normalmente negli interrogatori, non otteneva alcun risultato. L’edificio della Giustizia, allora, barcollava: se gli assalti del boja erano inutili, se alla “question” non seguiva una convinta confessione, era prassi, sia pure raramente, che il seviziato fosse lasciato libero.
Questo tipo di accidenti imprevisti, invece, di solito scioglieva ogni dubbio dell’Inquisitore. Se gli accusati (molto spesso, le accusate), nonostante i tormenti più scellerati, negavano le proprie responsabilità, ciò non era dovuto alla loro forte fibra, e nemmeno alla loro capacità di difendere la propria innocenza; era evidente, piuttosto, che avevano preparato qualche sortilegio o assunto qualche droga che non li facevano soffrire, durante il supplizio.
Bouvet, nel suo Les manières admirables pour découvrir toutes sortes des crimes et sortilèges (1659), è prodigo di consigli pratici al riguardo. Nell’evenienza che gl’imputati, a esempio, abbiano ingerito del sapone per procurarsi un totale intorpidimento dei sensi, il trattato consiglia di risvegliarli con un abbondante libagione di vino. Se invece, per stordirsi di fronte alla tortura, l’imputato ha usato un occulto sortilegio, occorre ritrovarlo ad ogni costo, ed eliminarlo: “È essenziale, allora, che il Giudice non sia né timido né credulone”.
Innanzitutto gli imputati vanno denudati, in quanto, per funzionare, l’antidoto malefico deve essere a contatto del corpo. Può trattarsi di una formula scritta sulla pelle (e Bouvet invita il magistrato a tagliare o bruciare peli e capelli delle vittime, perché il tatuaggio può essere celato lì sotto). Ma il sortilegio può essere anche tracciato su una carta, o un papiro, appallottolato nelle orecchie, o nelle vergogne. Bisogna quindi procedere a un’ispezione delle parti intime. Non è infrequente poi che i furbi fattucchieri e fattucchiere mangino il sortilegio: in tal caso un sonoro purgante li costringerà a espellerlo (“on le verra infailliblement sortir”), e a consegnarsi, così, senza difese, alle grinfie del carnefice.
III- Il vero godimento degli Inquisitori è certamente quello di “sopravvivere”, con un intatto Sé, al Male, alla crudeltà e al dolore che riescono a infliggere.
Schopenhauer ne Il Mondo come Volontà e Rappresentazione scrisse, che “l’ultimo segreto della vita”, così spesso alla portata dell’infelice, è riconoscere come cose identiche, “il dolore e il male, la sofferenza e l’odio”, e che “il carnefice e la vittima”, cioè il torturatore e il torturato, “per quanto appaiano diversi […] sono in sé una sola e medesima cosa”.
“Identici”: questa è anche l’opinione che Severino Cesari espose nel la sua Prefazione ai romanzi di Valerio Evangelisti che si basano sulla figura dell’inquisitore Eymerich.
Schopenhauer e Cesari potrebbero aver ragione. Questa regola di “identificazione” potrebbe esser vera non tanto come variante della cosiddetta e fin troppo evocata sindrome di Stoccolma, per la quale la vittima presto “parteggia” e diventa “complice” del suo sequestratore. Ma proprio nel verso contrario.
Soprattutto quando escogitava nuovi atroci espedienti per sottoporre gli imputati a inedite forme di tormento, soprattutto allora, l’Inquisitore si deve essere sorpreso che ciò che vedeva attivo e sanguinante sulla pelle e nelle carni del torturato, non procurasse anche a lui lancinanti dolori o pazzia.
Quando gli Uomini, in età moderna, hanno spinto la loro fantasia a ideare nuove torture, l’hanno fatto, forse, alla ricerca dell’ultima, la definitiva: quella che a loro stessi avrebbe procurato le medesime sofferenze della vittima.
[in copertina: Martirio di Santa Margaretha (affresco di scuola catalana)]