“ISPIRAZIONE”
[questo racconto apparteneva alla silloge L’ultimo caso del Piccolo Lama Nanguj (edita da Theoria), e non è stato più pubblicato dal 1992]
Come se sapessero che Simùn non aveva altro da fare i due visitatori infortuni, uno alto dallo sguardo vivace, l’altro grasso e insignificante, si sedettero nella sua cucina – senza badare alle sue proteste.
– Ci scusiamo per il disturbo, signor Simùn, e per l’ora tarda –disse il più alto –: ma appena conoscerà i motivi della nostra visita non potrà non apprezzare la nostra discrezione. Sappia che lei è stato scelto tra milioni di virtuali concorrenti…
Simùn lo interruppe.
– Se è per mostrarmi un prodotto, o allettarmi con la promessa di un premio, dico loro sinceramente che non voglio né l’uno né l’altro.
– Le sue rimostranze sono giuste. Ma si tranquillizzi, non vogliamo venderle niente.
– Direi – se ne uscì il grassone, ridacchiando.
– Vogliamo piuttosto venire incontro ai suoi desideri, diciamo così, più segreti, più ambiziosi. Mi permetta di riassumerli. Molte cose mancano a questo povero e tormentato ventesimo secolo, molti, nell’abbondanza di scoperte, di tecniche, di rivoluzioni. Non crede, signor Simùn?.
Senza attendere risposta, continuò: – Ma lei pensa che a noi, alla nostra cultura, manchi sostanzialmente una cosa, non è vero?
Simùn taceva ma era interessato.
– Mi scusi se semplifico un pensiero che la tormenta, o la esalta, da anni, ma lei pensa, lo sappiamo, che l’epoca nostra abbisogni soprattutto di un’Opera!
– Non so dove volete arrivare – disse Simùn – e quindi non so se lodare la vostra perspicacia o accompagnarvi alla porta prima che tiriate fuori la vostra enciclopedia.
– Enciclopedia? – chiese l’altro, evidentemente il più tonto.
Quello magro lo riprese.
– Ma sì, il Settecento, il 700: Diderot!
– Ah! – si scusò il più incolto.
– Le siamo grati per la sua resistenza – continuò il visitatore più arzillo – che ci dimostra che la nostra scelta è giusta. Ma abbia la bontà di ascoltare la nostra proposta. Dunque: il tempo nostro ha bisogno di un’Opera. L’Ottocento ebbe L’origine delle specie di Darwin e il Capitale di Karl Marx; il Settecento l’Enciclopedia e l’opera di Newton. È inutile che continui, non ho bisogno di lusingare la sua cultura. Lei ha capito a cosa mi riferisco. L’Opera del Novecento, che muterà il mondo, sarà lei a scriverla. No, non si difenda. Sappiamo che da anni lei si prepara, prende appunti, congettura. Lei vuole scrivere l’Opera. Da decenni non pensa che a questo. Ma ora la pigrizia sta per averla vinta su di lei, perché in tanto tempo non è venuto a capo di niente…
– Chi vi ha dato queste informazioni?
– Signor Simùn…– lo rimproverò il visitatore più rozzo, come per dire: non faccia domande stupide.
– Il fatto è che in parte sono vere. Io credevo di non essermi confidato con nessuno, ma è così. Da molto tempo io scrivo in funzione di un… chiamiamolo così, capolavoro assoluto. Odio le mezze misure. Se scrivo è per dar vita a qualcosa di grande, di mai visto, di inarrivabile.
– E contava di sorprendere tutti, amici e nemici, con l’Opera, col trionfo della sua genialità…
– È vero. Siete per caso editori? – chiese Simùn rinfrancato, atteggiandosi a uomo superiore, di mondo. I due si guardarono ridacchiando.
– No. In un certo senso: “curatori”. Ma torniamo alla nostra proposta. Lei non ignora che, in verità, il capolavoro immortale trascende le possibilità del singolo autore. Pensi a Dante, alla Commedia e al Convivio, pensi a Shakespeare: da una parte abbiamo il Timone, dall’altra il Macbeth. Si è mai chiesto la ragione di tanta disparità di valore? Pensi a Per la critica dell’economia politica e al Capitale. Tra l’abbozzo e la grande opera c’è qualcosa di tellurico, di maestoso, di insondabile… o forse qualcosa di più semplice: un espediente, un catalizzatore, una… droga…
Il visitatore più magro pronunciò le ultime parole soffiandole dentro un sorriso.
– Ed è…
– Questa – rispose con sobrietà, aprendo una cassetta vetusta. Dentro c’erano trenta boccettine allineate, vuote, con l’etichetta logora su un verso. Una sola bottiglietta, l’ultima, era riempita da un liquido azzurrino.
– Sono i trenta Elisir dei Capolavori. Le prime due costituirono la robusta bevuta di Omero e di Mosè. Una bottiglia ciascuno. Questa conteneva la bevanda di Galileo: lui tentennò. Rimase un po’ di liquido che facemmo bere a Newton. Su questa si posarono le labbra avide di Goethe. Questo collo di boccetta fu stretto dalle mani di Diderot, di d’Alembert, e di alcuni altri enciclopedisti. A ispirare Marx fu sufficiente solo una parte lasciatagli dal beone, e meno intelligente, Charles Darwin. Purtroppo il liquido a nostra disposizione è esiguo. A metà dell’Opera, fummo costretti a far bere più persone da una stessa boccettina. Ma l’ultima l’abbiamo conservata tutta per lei. È il compimento della sua Opera, e della nostra. È l’immortalità dell’immortalità.
– Che ne dice, eh? – lo interrogò il deficiente. E Simùn:
– Sono esterrefatto. Non so che dire. Come mai in tanti secoli nessuno ha rivelato l’esistenza della pozione ispiratrice?
– Perché nel liquido è contenuta l’essenza dell’Oblio. Non in dosi eguali, purtroppo. Hoffmann, deve essersi rammentato qualche momento del nostro incontro, forse in sogno, quando scrisse Gli Elisir del diavolo, proprio il romanzo che gli avevamo fatto bere. Di solito però il genio dimentica tutto, tutto.
– Esseri miracolosi – disse Simùn –, mi avete convinto. Mescetemi l’ultimo nettare che spetta ai grandi geni! –
Ma poi frenò il suo entusiasmo retorico. – Non vorrete in cambio da me qualcosa di mostruoso, vero? Niente che riguardi la mia anima… o il mio corpo…
– Nulla – disse tranquillo il visitatore colto. – Ci è sufficiente la soddisfazione di aver contribuito a una grande impresa. No, non ci chieda da dove veniamo e a che scopo, non domandi se siamo o meno immortali. Nessuno dei grandi Spiriti del passato ha ottenuto da noi più che il ristoro e l’ebbrezza della Composizione.
– L’ultima domanda: non temete che un giorno sarete scoperti da qualche critico o da un investigatore più acuto delle lettere e delle Scienze? In questo caso tutto l’edificio della Cultura, in Oriente e in Occidente, crollerebbe.
– È impossibile. Noi interveniamo su persone sceltissime e di qualità superiore. Quando Aristotele scrisse (o meglio: gli fu inconsciamente dettata) la Metafisica, nessuno se ne è stupito. I suoi scritti precedenti stavano lì a dimostrare che con uno sforzo ulteriore, enorme e geniale, il capodopera decisivo era alla sua portata. Così fu per Confucio, San Paolo, Montaigne e per tutti gli altri. E così sarà, infine, per lei.
Con un gesto tranquillo gli consegnò l’ultima boccetta, che aveva provveduto a liberare dal tappo. Sull’etichetta recava questa dicitura: “Teoria dell’universo, ovvero della Felicità. Trenta paradigmi scientifici per dominare la materia e le infinite dimensioni del Cosmo. Le nuove fonti dell’energia astrale, ecc.”.
Simùn rimase di sasso.
– Beva pure, giovanotto, non c’è pericolo, si addormenterà solamente – intervenne quello con l’aria del funzionario cretino e, rivolto all’amico, aggiunse: – Ti ricordi d’Alembert? Che dormita!
– Lei, signor Simùn – proseguì affabilmente il magrolino –, è un fisico illustre. Sono anni che studia le risorse energetiche, i viaggi nel tempo, la quarta e la quinta dimensione, la possibilità di modificare pacificamente il mondo. Ora è accontentato. La sua Opera cambierà realmente il Novecento e il mondo. Si tratta di una teoria azzardata, ma vera. Noi l’abbiamo provata. Anche il mondo le crederà, perché la sua fama di ricercatore è grande.
– C’è un equivoco – disse con un filo di voce Simùn.
– Via, non faccia il modesto.
– Beva!
– Io non so un’acca di fisica e di scienza. Ho fatto il liceo classico. Io scrivo poesie…
– Che cosa sta dicendo? È impazzito?
– Pensavo che voi mi proponeste… avevo in mente da anni un romanzo che partisse dalla mia esperienza al Ministero dei Lavori Pubblici. Una sorta di “commedia umana”, una sintesi di Dante, Omero, Shakespeare e Me: “L’ultima strada, prima del Camposanto”, si doveva intitolare. Adesso non so che fare. Posso… debbo ancora bere?
Il grassone ritardato gli agguantò la mano che stringeva ancora la bottiglia.
– Lei non è Simùn Wiesebaker, di Ostenda, nato nel 1886?
– Sì.
– Non ha frequentato le scuole superiori scientifiche e l’università di Ostenda, dipartimento di Fisica?
– No… aspetti, quello è mio cugino, Simùn Wiesebaker anche lui… o meglio: era.
– Era? – chiesero all’unisono i due visitatori.
– È morto il mese scorso. Era un fisico abbastanza famoso, non ne avete mai sentito parlare? Lavorava da anni a non so che progetto. Studi che non ha completato e che sono finiti con lui, nella tomba.
– In che mese siamo, adesso? – implorò il più magro.
– Che domande, novembre!
– Novembre, novembre 1922! E noi dovevamo arrivare a marzo!
Il grassone estrasse dalla tasca un piccolo congegno a forma di giroscopio e lo sbatté sul tavolo, tempestandolo di pugni.
Dopo qualche minuto di panico silenzioso, i due confabularono in disparte. Quando si presentarono di nuovo di fronte a Simùn, uno aveva l’aspetto contrito, l’altro, la tranquillità del suicida.
– Signor Simùn, anche in questo frangente, faremo il nostro dovere. Ci credevamo infallibili, ma non lo siamo stati. E non possiamo tornare indietro. Il mio collega ha già provveduto a vuotare la bottiglia della “Teoria dell’Universo” nel suo lavandino. A lei, in sostituzione, daremo da bere questa.
Gli mostrò un flacone con l’etichetta: “ISPIRAZIONE”.
– Non so cosa contenga – proseguì il magrolino –, ma non è mortale. Probabilmente è il modo con cui i nostri superiori, che avevano previsto anche questa evenienza, ci puniscono.
Simùn mandò giù il liquido tutto d’un fiato.
E si addormentò.
SIMÙN WIESEBAKER
[in copertina: “Hoffmann”, dalla rivista Der Orchideengarten]