C’è di solito, un tratto poco “fantastico” in quel flagello della civiltà umana, inarrestabile fin dalla notte dei tempi, che si chiama Ingiustizia. Casi atroci non mancano negli annali di nessun paese, perpetrati dai Tribunali più miopi o dai giudizi sommari degli autocrati. Ma (fantastica Via d’Uscita) se le Corti terrene sono fallibili, l’innocente perseguitato, o ingiustamente condannato alla pena capitale, può comunque ricorrere – dove l’Appello non sia più possibile –, a un ulteriore grado di giudizio, a un “Altro Processo”.
Stavolta, sopranaturale.
Il Dictionnaire des Superstitions, che fa parte, come ventesimo volume, della lodevole Encyclopédie Théologique dell’abate Migne, dedica una voce a quest’estrema risorsa contro l’ingiustizia, che è l’ “Ajournement”.
Detto in termini giuridici approssimativi: se un processo si è concluso con un verdetto illegittimo o sbagliato, soprattutto in caso di condanna a morte, allora, la parte lesa può farlo aggiornare, rimandando e riproponendo la propria causa davanti al Tribunale Divino, l’unico equo, per definizione, nelle sue sentenze.
La richiesta dell’Ajournement, che di solito la vittima del torto notifica direttamente a un’ingiusta Autorità, ha sapore di maledizione, di jattura: perché il Giudice contestato per i suoi errori deve presentarsi, sì, a Dio, per il nuovo dibattimento, ma deve farlo “come anima” – in spirito, non in corpo. Cioè: da morto. E all’iniquo, di norma, viene concesso un lasso di tempo assai ristretto, per morire.
In certi casi si era convocati al cospetto di Dio al massimo entro un anno dall’ingiunzione. Persino Papi e sovrani risposero, certo malvolentieri, all’appello.
Clemente V, pontefice, e Filippo il Bello, monarca francese, furono citati per un Ajournement di fronte al Tribunale Divino da Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dell’Ordine Templare – bruciato come eretico a Parigi –, ed ebbero un anno di tempo per preparare la loro difesa, termine entro il quale immancabilmente spirarono.
A Francesco I di Bretagna, fratricida, – invece – concessero appena quaranta giorni: fulminato dall’ultimatum, macerato dal rimorso, il tiranno morì giusto nella data stabilita.
Nel 1312, Ferdinando IV, re di Castiglia, fece arrestare due fratelli, don Pedro e don Juan de Carvajal; entrambi erano accusati d’aver assassinato un nobile della casata di Benavides, mentre usciva dal Palazzo Reale di Palencia. I due cercarono di scagionarsi dell’omicidio, ma non si ebbe nessun riguardo delle prove che portarono a loro difesa; furono quindi dichiarati rei di lesa maestà e condannati a morte, benché nessun Tribunale li avesse riconosciuti colpevoli, e in totale assenza di una loro confessione – “cosa”, lamenta lo storico Mariana, “molto pericolosa, in simili casi”.
“Li condussero dunque a un precipizio, che si trova nei pressi di Martos, per farli sfracellare. […] Mentre venivano condotti al supplizio, i due fratelli dichiararono ad alta voce che morivano ingiustamente, e che subivano un torto grandissimo: per cui chiamavano Dio, il Cielo, e tutto il mondo a testimoni della loro innocenza; aggiungevano poi che, visto che il Re era sordo alle loro proteste e impediva loro di discolparsi, essi si sarebbero appellati al Tribunale del Giudice Supremo, davanti al quale avrebbero citato a comparire Re Ferdinando, di lì a trenta giorni. Queste parole, al momento, sembrarono un vaneggio; ma ciò che accadde in seguito, o che sia successo per caso, o per coincidenza, indusse molti a pensarla diversamente e a fare ammenda”.
Partito per una campagna di guerra contro i Mori, molto presto Ferdinando mostrò i segni d’una inattesa e grave malattia. Finché, lasciato il campo di battaglia, morì improvvisamente, nel sonno, dopo un lauto pasto. Era nel fiore degli anni.
«Ci fu, dopo, – conclude Mariana – chi attribuì la morte del Re agli eccessi del bere e del mangiare: altri dicevano invece che era stato castigato da Dio, perché tra il giorno nel quale fu citato dai due cavalieri di Carvajal, e il momento in cui morì (cosa meravigliosa e straordinaria) si contavano esattamente trenta giorni.
Per questo tra tutti i re di Castiglia don Ferdinando fu chiamato: il “Convocato in Giudizio” (“el Emplazado”)» .
[in copertina: I Templari apparecchiati per il rogo, illustrazione da “De casibus virorum illustrium” di Giovanni Boccaccio]