I- Si chiede Italo Calvino in uno di quei bei saggi che si leggevano una volta persino sui giornali:
«Qual è il libro che Amleto sta leggendo, quando entra in scena al second’atto? A Polonio che glielo domanda risponde: “parole, parole, parole”, ma se una traccia di fresche letture possiamo cercare nel monologo dell’ “Essere o non Essere” che apre la seguente entrata in scena del principe di Danimarca, dovrebbe essere un libro in cui si discute della morte come d’un sonno, visitato o no da sogni».
In effetti nel testo che segue (III, 1) si dice (seguendo la traduzione di Montale):
” […] Morire, dormire:
dormire, sognar forse… Forse; e qui
è l’incaglio: che sogni sopravvengono
dopo che ci si strappa dal tumulto
della vita mortale […]?”
Alcuni studiosi delle fonti scespiriane hanno sostenuto che il libro misterioso a cui si ispira Amleto sia il De Consolatione di Gerolamo Cardano, “libro tradotto in inglese nel 1573 in un’edizione dedicata al conte di Oxford, quindi noto negli ambienti che Shakespeare frequentava”. Nel De Consolatione si parla, tra l’altro, del Sonno: “il sonno più dolce è quello più profondo” – dice Cardano – “quando siamo come morti e non sognamo nulla…”.
Non posso giudicare l’influenza di Cardano su Amleto da questa sola frase; ma che il “pallido principe” leggesse proprio il suo trattato, difficilmente lo trovo convincente. Una pletora di letterati, classici o contemporanei a Shakespeare, ha affrontato questa materia, nient’affatto originale, e si può dire che ogni uomo, anche il più ignorante, grossolano, materiale, potrebbe tenere una conferenza sul sonno e sul sogno: è un’esperienza diretta e comune, per la quale non c’è bisogno di sfogliare nessun libro.
Inoltre, da quel che dice il monologo nel passo appena citato, si vede bene che non è il Sogno in sé, che interessa Amleto, ma la Morte, il mistero della Morte.
Eppure, mi pare giusto, che la critica abbia riconosciuto un rapporto stretto tra il misterioso e poeticissimo sproloquio d’Amleto nel terzo atto, e la lettura esibita in precedenza dinanzi a Polonio, al Re e alla Regina Madre – Gertrude, che prima di ritirarsi sospira, vedendolo arrivare: “Oh, guardatelo il poveretto. É lì che viene leggendo”: quasi ci fosse un legame diretto tra il darsi ai libri e dimostrarsi irrimediabilmente pazzo. Ed è vero che il principe risponde alla domanda di Polonio, il ciambellano: “Che mai state leggendo, mio signore?” col proverbiale verso “Words, words, words”, ma poi, richiesto di spiegazioni, aggiunge anche il presunto contenuto del suo libro:
“Tutte bubbole! Questo sarcastico cialtrone scrive che i vecchi hanno barbe grigie e facce rugose, occhi che versano goccioloni d’ambra e gomma di susino, e che sono peggio che slombati e senza cervello”. […] – for yourself, Sir, shall grow old as I am if, like a crab, you could go backward”, ossia, letteralmente: “potreste diventare un vecchio della mia età, se, come un gambero, poteste tornare indietro”. Parole (parole, parole) che inducono il vecchio Polonio, appena preso pei fondelli, alla celebre riflessione – molto apprezzata da Sigmund Freud –: “C’è del metodo in questa pazzia”.
Geniale pezzo di teatro, davvero, ma resta incomprensibile perché certi critici non abbiano mai preso in considerazione che quello descritto da Amleto potesse essere davvero, almeno in parte, l’argomento del suo libro. La vecchiaia, quindi, e se sia meglio preferirla a una precoce morte. Una morte “scelta” per motivi filosofici, ossia, per suicidio.
Prima di procedere, è bene comunque ricordare i versi iniziali e le parole precise che sta “recitando” Amleto in quel momento (III, 1), quando si crede solo, e non ha ancora visto, sullo sfondo, la figura d’Ofelia, che passeggia – lei sì – leggendo.
“To be or not to be – that is the question.
Wheteher ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them?”
Così tradotto da Montale:
“Essere…o non essere. È il problema.
Se sia meglio per l’anima soffrire
oltraggi di fortuna, sassi e dardi,
o prender l’armi contro questi guai
e opporvisi e distruggerli”…
Non c’è solo, in queste parole, il dubbio, l’incertezza, se sia “più nobile” vivere o morire, in certe circostanze, ma il “nodo” – centrale, nella riflessione – di quale debba essere la qualità, e il senso, di questa vita, o questa morte. Bisogna risolversi e scegliere l’una o l’altra, e non aver paura né di vivere, né di morire.
E qui mi pare chiaro che Amleto, studente a Wittenberg e fresco di letture “filosofiche”, stia proprio commentando un passo di qualche classico che ha in mente. Per solito, infatti, a questo punto i registi di Teatro in tutto il mondo mettono al principe un libro in mano. Che libro? Certo, non Cardano.
Il testo che lo ispira deve dunque contenere questi elementi: l’antagonismo tra vita e morte, e il ruolo della Fortuna che ci oltraggia a colpi di frecce e di “fiondate” (slings). Un tale testo secondo noi esiste, e non dobbiamo cercarlo tanto lontano, ma nelle Lettere di Seneca a Lucilio.
Precisamente nell’Epistola 74 (8-11), là dove si dice, a proposito di chi si lamenta della propria Fortuna: “Ne deriva che non vogliamo né vivere né morire: siamo presi dall’odio per la vita, dalla paura della morte (inde est quod nec vivere nec mori volumus: vitae nos odium tenet, timor mortis). Ogni nostra decisione ruota nell’incertezza e non c’è prosperità che possa soddisfarci”.
E questo non è solo il quadro d’una divorante “malinconia”, ma l’essenza stessa del “dubbio amletico”.
Dubbio, per il quale il filosofo romano non ha nessuna propensione, né alcuna pietà: “Nulla hanno di onorevole ogni trepidazione, l’angoscia, l’indolenza in qualsiasi atto. Nobili sentimenti comportano serenità e speditezza decisionale, significano coraggio imperterrito, prontezza all’azione” (30), che invece viene impedita, quando “l’animo, che deve trovarsi, com’è opportuno, in una posizione dominante, si lascia deprimere dal cordoglio e dal rimpianto”. Frasi che sferzano il titubante Amleto e lo inducono a riflettere e a tormentarsi, anche lui, tra “odio per la vita, e terrore della morte”.
Se poi confrontiamo i due testi – monologo, epistola – per riscontrare altre similitudini “letterali”, troviamo, nella stessa Lettera (19), inviti a “prender l’armi” contro le sventure: “Adversos hoc casus muniendi sumus”; oppure accenni a come la virtù – suggerisce Seneca – consenta di “sopportare molti di quegli inconvenienti che la gente chiama mali”.
Ma ancor più sorprendente è imbattersi, evocata in queste stesse righe (5), nell’immagine della Fionda: “I mali altrui e per giunta improvvisi turbano gli animi di tutti. Come il sibilo della fionda (fundae sonus), sia pure vuota, atterrisce gli uccelli, così noi ci angustiamo non solo per un colpo, ma per un semplice crepitio”. I “colpi della fionda” sono proprio gli “slings” di cui verseggia Shakespeare.
Dunque, l’ “Essere o non Essere” d’Amleto sembrerebbe quasi gratuito e puro coup de théâtre, se non lo si considerasse un commento testuale – quasi un’improvvisazione sul soggetto – a un libro preesistente: e noi opteremmo, in questa scelta, per un classico: le Lettere di Seneca a Lucilio. Con ciò, non vogliamo affatto affermare che quel volume abbia avuto un posto di rilievo nella “Biblioteca di Shakespeare”. Per un semplice motivo: di questa biblioteca non sappiamo niente. Non sappiamo neppure se è mai esistita; Shakespeare, nel suo testamento, non ne fa alcun cenno, e non ci sono in giro nel mondo libri dei quali possiamo dire, con assoluta sicurezza, che siano appartenuti a lui. Di questo strano caso e delle sue conseguenze nell’annosa “questione scespiriana” parleremo prossimamente.
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[in copertina: Jack Benny in To Be or not To Be (Vogliamo vivere, 1942) di Ernst Lubitsch]