I- Secondo Émile Durkheim è lecito classificare come suicidio “la morte di un certo numero di martiri cristiani”, che la Tradizione attribuisce, come infamia, alla pura malvagità degli Imperatori o dei magistrati di Roma. Non si tratta certo di suicidi “normali”. Si può dire anzi che a quei tempi, tra i seguaci di Gesù, prevalse una forma specifica di “coerenza”.
È vero che la Religione più convincente e duratura è quella che di solito esige l’incoerenza, per sopravvivere. Ma in questo caso, di fronte alla prospettiva del Martirio, sia il mistico che il comune credente recuperarono un barlume di raziocinio. Infatti, è proprio a chi sacrifica tutto se stesso per la Fede di Gesù che si schiude l’Avvenire migliore: Salvezza Eterna, in cambio della propria Vita – povera cosa, quest’ultima, per davvero, già menomata, già ridotta ad ombra passiva, a simulacro, in Terra. Il Massimo in cambio del Minimo. Tertulliano arrivò a dire che in Paradiso, fino al giorno del Giudizio Universale, avrebbero abitato solo i Martiri. L’apologeta, profondamente influenzato dalle posizioni radicali dei montanisti, sosteneva che il martire è “imporporato dalla speranza di versare il proprio sangue”: perché la morte per supplizio è “il donativo di Cristo (donativum Christi)”.
Perciò, quando le persecuzioni, da parte dei Gentili, divennero più dure e sanguinose, la Posta in palio attirò tutti, o quasi, i cristiani. La Frenesia del Martirio contagiò alla medesima maniera gli eremiti e i mistici, le devote più anonime, i giovani proseliti, i pastori delle piccole comunità religiose, i Padri nobili della Chiesa. Cipriano, vescovo di Cartagine, si consegnò spontaneamente ai Romani. I fedeli che l’accompagnarono nella sede del martirio, da lui “ebbero l’ordine di dare venticinque monete d’oro al carnefice” Un obolo invero assai modesto, se in contraccambio c’era un salvacondotto per il Paradiso.
Un atto di grazia, quando giungeva dalla giustizia degli Uomini, metteva a repentaglio la Grazia Celeste: era temuto come il peggior pericolo o disdetta. Mentre il carnefice si accingeva a decollare un adolescente cristiano di nome Romano, che aveva già poggiato la testa sul ceppo, giunse trafelato un messo dell’imperatore, con un provvedimento che liberava lui e i suoi compagni reclusi. “Il giovinetto Romano”, racconta Gilio da Fabriano ne Le Persecutioni della Chiesa,“che stava in genocchioni per mettere la vita per CHRISTO, contristato dalla grazia si dolse, non essere stato degno del nome di martire”.
Si temeva persino in certi casi, la Pietà delle Fiere. Ignazio vescovo di Antiochia, perseguitato da Traiano, ambiva essere sbranato nell’arena per maggior gloria di Dio, e si rivolgeva alle belve che lo attendevano chiamandole “salutifere”. Scrivendo ai suoi fedeli, aggiungeva: “Quando mi si faranno incontra? Quando lecito sarà loro godere le mie carni?”. Nel momento in cui, finalmente, fu offerto in pasto alle fiere del circo, a Roma, proprio mentre veniva dilaniato, Ignazio nel “fervore del martirio” esclamò: “Io sono hora frumento di Dio, messo sotto la mola dei denti delle bestie, acciò divenuto farina di me si faccia pane mondo, e puro à CHRISTO”.
Purtroppo, afferma ancora il Gilio nelle stesse pagine, i tori, gli orsi, e i grandi felini affamati e scatenati nel circo contro i cristiani, si dimostravano spesso e fuor di luogo miracolosamente “benigni e mansueti”. Gli inservienti e i soldati cominciavano così a molestare le belve e a pungolarle a sangue, perché uccidessero in fretta le loro vittime inermi: ma gli animali si ribellavano a quelle prepotenze e, ignorando i cristiani, per ritorsione azzannavano selvaggiamente i carnefici pagani. Episodi di questo tipo erano talmente frequenti che i persecutori cominciarono a cautelarsi. Ad esempio, in Palestina, astutamente “si comandava, che essi santi martiri istigassero contra se stessi le bestie”. Perché le fiere ubbidivano solo a loro.
II- Nel nome di Cristo era dolce e augurabile essere percossi, umiliati, annichiliti, uccisi. Contrariamente ad altre Confessioni, soprattutto a quelle dei Gentili, per valutare il favore di Dio non ci si orientava più con l’ordalia della vittoria o del successo. Anche decretando la loro disfatta, cattura, supplizio, o morte, Iddio non abbandonava i suoi, quelli che gli erano più cari: al contrario, nella sciagura apriva loro le porte del Paradiso.
La certezza delle beatitudini celesti rendeva i protomartiri smargiassi e attaccabrighe. Montaigne rievoca: ci furono cristiani suppliziati che urlarono, in mezzo alle fiamme con cui li tormentavano i persecutori: “Questa parte è abbastanza arrostita, tagliala, mangiala, è cotta, ricomincia dall’altra”! – offrendosi a quei boja indemoniati come festosa “carne da cannibali”. Si moltiplicarono pure i casi di “provocatori” catecumeni che professavano apertamente e sprezzantemente la fede cristiana al cospetto delle autorità pagane, pur di farsi torturare, massacrare e decollare.
Tra tutti questi fanatici – lo apprendiamo da Gibbon –, svettavano senza rivali i Circumcelliones (Circoncellioni), abitanti dei villaggi della Numidia e della Mauritania, che formavano la “forza e lo scandalo” del partito dei Donatisti: una setta così numerosa, tra il quarto e il quinto secolo, da mettere in pericolo l’unità della Chiesa africana. Le dispute religiose, in quell’epoca (e non solo in quella) incoraggiavano il banditismo: si trovava naturale depredare, spogliare, bruciare le città e le comunità che, in tema di Fede, la pensavano altrimenti.
«I capi dei circoncellioni presero il nome di capitani dei santi. Essendo scarsamente provvisti di spade e di lance, la loro arma principale era una grossa e pesante clava, che essi chiamavano l’israelita: e il loro noto grido “Dio sia lodato”, che era il loro grido di guerra, spargeva la costernazione per le disarmate province dell’Africa».
Potevano contentarsi delle stragi, del facile bottino, del terrore ormai generalizzato che tutti nel Deserto associavano al loro nome? No. Il furore dei donatisti non si appagava mai. Quando i loro Capi, Donato e Marcolfo, morirono, per loro fu come se l’Angelo – o il dèmone – , sterminatore, che li divorava, avesse rotto l’ultimo sigillo in grado di trattenerli. Cercarono, allora, follemente, la gloria ebbra di sangue del Martirio, l’Apoteosi del Suicidio. “A volte andavano a turbare le solennità e a profanare i templi del paganesimo, col proposito di eccitare i più zelanti fra gl’idolatri a vendicare gli oltraggi fatti ai loro dèi. Altre volte irrompevano nei tribunali e costringevano i giudici atterriti a farli immediatamente giustiziare”.
I donatisti vantavano migliaia di martiri volontari. Le fortune che accumulavano razziando il paese, non erano destinate al loro godimento privato. Con quel denaro, con quelle ricchezze rapinate, importunavano e ricattavano i pagani. “Spesso fermavano i viandanti per le strade e li obbligavano a dar loro il martirio, con la promessa di una ricompensa se acconsentivano, e la minaccia di morte immediata se rifiutavano loro un favore tanto singolare. In mancanza d’altro, annunziavano il giorno in cui alla presenza dei loro amici e fratelli si sarebbero precipitati da qualche altissima rupe; e si mostravano vari precipizi, divenuti famosi per il numero dei suicidi religiosi”.
Stabilito che il Paradiso, col martirio del cristiano, viene assegnato automaticamente – e che quindi “provocare” il carnefice, e consegnarsi a lui, è una necessità “logica” –, difficilmente si troverà, negli annali delle Confessioni Religiose, un esempio di coerenza e di furia autolesionista pari a quelle dimostrate dai Circumcellioni Donatisti. In questi settari, l’ambizione alla Santità divenne pura – e Fantastica – Voluttà di Suicidio.
[dalla Fantaenciclopedia]