I- Il 2 agosto del 338 avanti Cristo, le armate di Filippo il Macedone e di suo figlio Alessandro (che presto, subentrato al padre, fu chiamato “Magno”) sbaragliarono le forze tebane e ateniesi a Cheronea. La disfatta sancì la fine della libertà delle ultime roccaforti democratiche dei Greci. Il grande oratore Demostene, l’ateniese che aveva più avversato l’invadenza nefasta dei macedoni, combatté da semplice oplita insieme ai suoi concittadini. Pur non essendo esperto di strategia militare, si accorse presto che le cose si mettevano assai male per la sua causa, e allora si salvò dalla battaglia dandosela a gambe. Riferisce Aulo Gellio, che «a chi gli rimproverava di essere vergognosamente fuggito, rispose con il notissimo verso: “Uomo che fugge può combattere ancora“».
Vero, ma può anche scappare ancora, se gli si presenta l’occasione.
Un emulo novecentesco di Demostene, Bertolt Brecht, mise sulle labbra d’un savio cinese questa formola:
“Il pericolo dura solitamente più della Fuga”.
Ma non so se intendesse che in genere ti abbrancano prima che ne scappi troppo lontano.
Se la ritirata non è possibile, ci sono altri rimedi, per il vile.
L’8 ottobre 1881, durante una “scaramuccia” con gli indiani a Milk River, nel Montana, il capitano Randolph Norwood (compagnia L, Secondo Cavalleria), “conosciuto”, dice lo storico Regan, “tra i suoi commilitoni come un codardo, ordinò ai suoi uomini di costruirgli intorno un muro di pietre“.
Quanto durò quella sparatoria, lo ignoriamo. È probabile che questo pionieristico saggio d’Architettura Pusillanime non vide mai la luce.
L’archivio che registra tutte le “Action with Indians” dell’esercito degli Stati Uniti riporta che quel giorno non ci fu nessuna vittima.
II- Afferma Platone nel Teeteto (176a-b): “La fuga è somiglianza a Dio”.
È un alibi che possiamo considerare interconfessionale.
Cipriano, vescovo veneratissimo di Cartagine e di tutta l’Africa, venuto a sapere che l’ imperatore Decio si preparava a perseguitare e a uccidere i cristiani, fuggì e scomparve nel deserto, celandosi in un’ oscura e ben protetta solitudine. La sua diserzione gli meritò il biasimo dei cristiani più rigidi e dei suoi nemici, ma il santo, dal suo impenetrabile nascondiglio, rispose alle accuse adducendo: primo, che egli doveva conservarsi vivo e salvo “per i futuri bisogni della Chiesa”; secondo, che molti altri vescovi avevano saggiamente evitato il martirio prima di lui; e che, se ciò non bastava, egli riceveva di continuo delle “visioni” e delle “estasi“, che gli consigliavano questa opportuna condotta. Voci angeliche, o divine, l’esortavano a scappare dai pericoli.
Il pavido, se può, soprattutto se qualcuno gli dà spago, si sente spesso illuminato e investito di una missione che proviene dalle più alte sfere di comando: quelle Celesti. Improvvisamente, mentre cerca a ogni costo, e a scapito degli altri, di salvare la pelle, si sente animato da poteri ultraterreni, e legittimato a qualsiasi azione infame e senza scrupoli. Sentendosi toccato da “divina ispirazione” respinge ogni accusa di viltà e anzi prepara diligentemente, di solito, la propria “apoteosi”. E qualche volta la sorte accontenta davvero l’invasato, per cui, a cose fatte, gli tributano gli onori che si devono a un eroe.
C’è un esempio celebre, in questo senso: il trionfo degli Orazi sui Curiazi, esaltato dagli annalisti di ogni tempo.
Narra Tito Livio che i due eserciti nemici di Roma e Alba, già schierati uno di fronte all’altro, decisero di comune accordo che la questione della supremazia tra le due città confinanti, poteva esser risolta senza spargere troppo sangue. Entrambi gli schieramenti scelsero allora nelle loro file tre fratelli, gemelli, di pari età, forza, valore: gli Orazi, da una parte, e dall’altra i Curiazi. Ai sei fu ordinato di combattere un triplice duello, che avrebbe sostituito un generalizzato scontro armato. Cosa accadde dopo è universalmente noto: uno degli Orazi sgominò tutti i rivali e Roma dominò su Alba grazie alla sua vittoria. Quel giorno prevalse, a quanto sembra, l’Astuzia, sulla forza bruta.
L’epico scontro tra Orazi e Curiazi – non si sa quanto storico, o quanto leggendario –, scosse anche Bertolt Brecht, che in Me-Ti, il Libro delle svolte, volle riambientarlo in un lontano Oriente per trarne una morale materialistico-dialettica:
“Me-Ti raccontò: Tre uomini del Su furono visti combattere con tre uomini del Ga. Dopo una lunga lotta due uomini del Su erano stati uccisi; degli uomini del Ga uno era ferito gravemente e un altro leggermente. Allora l’unico uomo del Su sopravvissuto prese la fuga. La sconfitta del Su sembrava completa. Ma poi si vide improvvisamente che la fuga dell’uomo del Su aveva cambiato tutto. Il suo avversario del Ga lo inseguì da solo, perché i suoi compatrioti erano feriti. Da solo, egli fu ucciso dall’uomo del Su. E senza indugio l’uomo del Su tornò indietro e uccise senza fatica i due avversari feriti. Egli aveva capito che la fuga può essere non solo un segno di sconfitta, ma anche uno strumento di vittoria“.
Il resoconto dell’episodio sfocia dunque in un panegirico della Vigliaccheria come “linea di condotta”, e in quanto tale viene elogiato dal marxista Bertolt Brecht.
La giostra originaria degli Orazi e dei Curiazi, ci insegna la stessa morale. Anche qui, guai a farsi influenzare dalle apparenze, e persino da ciò che è oggettivo. Dal punto di vista di un estraneo che assiste allo scontro, la sfida si chiude in questo modo: il sopravvissuto tra i fratelli romani scappa come un vigliacco. E infatti la sua è una fuga precipitosa, rovinosa. Ma lui dirà poi, a cose fatte, che altrimenti i nemici avrebbero sospettato tutta la strategia, il suo tranello sarebbe stato smascherato, e gli aggressori sarebbero stati più in guardia; o semplicemente, visto che erano tre contro uno, avrebbero atteso il suo ritorno e l’avrebbero massacrato. Comunque sia, la sua è una fuga indegna. L’eroe mostra la schiena, corre a gambe levate. Quando viene raggiunto, uccide l’avversario per disperazione, in modo scomposto. Deve essere così, dirà, altrimenti gli altri non sarebbero caduti nell’inganno. Ai nemici doveva comunque sembrare facile scannare quel coniglio, che aveva avuto solo un pizzico di fortuna. In modo sconcio, sguaiato, indecoroso, il sopravvissuto invece li fa fuori tutti e tre, e diventa un mito. Non solo perché ha vinto, ma perché ha posto a rischio la sua fama. Se solo il primo che l’inseguiva, gli avesse trafitto il posteriore, a chi avrebbe potuto gridare che non fuggiva per mancanza di coraggio, ma perché era, tra tutti, il vero, astuto, Eroe?
La vigliaccaggine pare il miglior mezzo social-darwinistico per sopravvivere: faccio la selezione dei miei nemici subito e di corsa, invece di aspettare qualche generazione. E uccidere il codardo, e non l’Eroe – contrariamente a ciò che crede la retorica guerresca –, è sempre la cosa più difficile.
Nessun libro di storia pensato per i giovani delle scuole dell’obbligo, che io sappia, riassume Tito Livio fino in fondo, e racconta l’esito finale della sfida tra gli Orazi e i Curiazi. Che terminò, in un certo senso, “in parità”. Morirono quel giorno, uccisi dalle daghe, tre della famiglia dei Cuziazi, albani, e tre della famiglia degli Orazi, romani.
Lo conferma anche Valerio Massimo: Orazio, vincitore “dei Curiazi in singolar tenzone, mentre tornava a Roma reduce da quel gloriosissimo scontro, vide sua sorella promessa ad un Curiazio piangere la morte dello sposo con più dolore che non comportasse la sua età e la uccise con la stessa spada” usata per far trionfare Roma sugli Albani. L’atto gli fu perdonato, ma dové soggiacere a un rito d’espiazione.