William Sydney Porter (tale era il vero nome dello scrittore O.Henry), nacque a Greensboro, nel North Carolina, nel 1862, e morì a New York – città di cui fu insuperato cantore –, nel 1910.
Per il pubblico di lettori nordamericani, O.Henry non è solo un Maestro della short story: è un monumento letterario. Nel nostro paese, certo, è poco conosciuto, ma dentro le stanze della loro memoria, i cinefili italiani alloggiano di sicuro e volentieri il ricordo di un film del 1952, La giostra umana, che si intitolava, nell’originale, O.Henry’s Full House.
Era tratto da cinque racconti dello scrittore. Uno di questi era ridotto per lo schermo dal grande Howard Hawks. Ma il più famoso, tra tutti, era l’episodio con Charles Laughton, un vagabondo perdigiorno che voleva essere arrestato a tutti i costi per scroccare un inverno al caldo delle stufe a spese dello Stato, in prigione, ma che non ci riusciva, nonostante mille espedienti. Poi, quand’era ormai redento e ansioso di tornare a lavorare, finalmente la giustizia si accorgeva di lui, e lo sbatteva in gattabuia.
O. Henry sapeva tutto delle galere e dei suoi inquilini: era stato uno di loro. Quando era commesso in una banca, per colpa di certi conti affrettati o sbagliati, lo accusarono di appropriazione indebita. Dopo un periodo di latitanza in Honduras, una “Repubblica delle Banane” del Centroamerica (a proposito, quest’espressione invalsa anche da noi l’ha coniata lui), si costituì, e fu condannato a cinque anni di reclusione nel carcere di Columbus, Ohio. Fu proprio durante questo soggiorno coatto che abbandonò il nome, troppo compromesso, di William Sydney Porter e lo sostituì con quello di O.Henry, per firmare i suoi racconti. Uscì, dopo tre anni, il 24 luglio del 1901, per buona condotta.
Ricorderà, chi ha la memoria migliore, che nel film La Giostra Umana, a introdurre la figura di O.Henry (“scrittore versatile, critico sociale, umorista ed esperto”), c’era niente meno che John Steinbeck, futuro Premio Nobel per la Letteratura, ma già insignito del Pulitzer dal 1940.
“Sono scrittore anch’io. Mi chiamo John Steinbeck”, biascicava l’autore di The Grapes of Wrath (tradotto da noi: Furore), torturando una grossa sigaretta accesa, con la sua faccia da cinico agente di spettacolo, i suoi baffetti da allibratore, i capelli radi, corvini, ravvivati da qualche frizione oleosa. E poi proseguiva (con la meravigliosa voce, in Italia, di Giorgio Capecchi): “Sono dell’opinione che uno scrittore debba essere letto, non visto, … ma O.Henry è morto, e non può pronunciarsi. Chissà, potendo, se lo farebbe. Chissà se gradirebbe di vedere i suoi personaggi sullo schermo… Johnny Valentine, lo scassinatore, a cui la polizia ricorse per salvare una bimba [che si era chiusa involontariamente dentro una cassaforte], … o Cisco Kid che anche i ragazzi d’oggi sognano d’emulare, il Robin Hood del West. Lo stesso folklore americano si identifica con O.Henry, con il suo coraggio, con la sua allegria, con i suoi tipi. Ci ha lasciati tanti bei racconti che è difficile scegliere… ”.
A dire il vero, il nostro Giorgio Manganelli, che ne curò nel 1970 un’antologia, ha stroncato, da par suo, i racconti di O.Henry. Per lui, non è un grande letterato, ma uno scrittore “chiacchierone” e divertente, un “entertainer” da panchina di parco pubblico – tutto proiettato sui finali a sorpresa, “a effetto”; quasi sempre, secondo lui, un effetto “facile”, da ciarla oziosa, “erratica e svagata”.
Però, tra tutti i 381 racconti del novelliere americano, ce ne sono molti che sarebbe ingiusto definire scontati e corrivi. La Ghost Story “Camera Ammobiliata” (“The Furnished Room”, 1906) – di cui ho parlato recentemente in questo sito –, è di sicuro uno dei più riusciti.
E poi: che c’è di male nella ricerca di “finali a effetto”, detti anche “colpi di scena”?
L’arte narrativa ne ha bisogno, e nella Letteratura Fantastica sono in certo senso essenziali. Sono “docce fredde” con le quali ci si ripulisce dalle scorie delle letture precedenti. Con questo tipo di conclusioni inattese, il Testo, scuotendolo dal suo normale impigrimento, stimola il lavoro mentale del Lettore: il quale sarà costretto, in un lampo, a ripercorrere all’indietro tutto il racconto per apprezzarne ancora di più la “fine a sorpresa”. La qualità dello scrittore sta, in quel caso, nel saper nascondere con prosa sapiente, invenzioni di stile e alchimie linguistiche il nodo cruciale verso il quale tutta la narrazione tende.
Così elaboravano i loro racconti i Maestri del Fantastico, come Edgar Allan Poe, Richard Matheson o Julio Cortázar, e anche l’avverbiale Borges, nostro faro, non ha fatto altro che celare questo inevitabile espediente dietro o dentro l’esibizione “scultorea”, “araldica”, di innumerevoli citazioni colte.