L’11 agosto del 1676, la badessa del Monastero di Palma di Montechiaro, in Sicilia, Maria Serafica, entrò nella cella di suor Maria Crocifissa della Concezione, e si trovò di fronte a questo spettacolo: la consorella – che, nella vita, era anche sua sorella – giaceva seduta in terra, ammutolita, “alienata da’ sensi”, con la faccia ricoperta e deformata da pennellate d’inchiostro, col calamaio e la penna rovesciati sulle ginocchia, e pallidissima, “mezza à calor di morte”. Nella mano sinistra stringeva una Lettera bizzarra istoriata di ignoti geroglifici e indecifrabili caratteri. Quella “funesta e barbara scrittura” aveva un’origine diabolica: l’aveva dettata Lucifero in persona.
La Lettera non è mai stata tradotta o interpretata. Sembra scritta in una lingua sconosciuta, e gli esperti riconoscono in essa solo una successione di segni dell’alfabeto greco, cirillico, etrusco, runico e yazidico.
È ancora conservata, e per quel che di essa posso sapere, dato che circola in diverse trascrizioni, questa dovrebbe essere la sua forma originaria:
Suor Maria Crocifissa era famosa, a Palma, per le sue strenue battaglie col demonio. Mistica, durante le sue estasi viaggiava in Cielo e conversava spesso con Gesù e con Maria. Le accadeva, in queste occasioni, di disinteressarsi totalmente del mondo, del monastero, delle incombenze che le erano affidate: tornava allora allo stato infantile, non riconosceva più i volti di chi gli stava intorno, e era preda, secondo i suoi ammiratori, d’un “prodigioso rimbambimento”. Si dubitò anche che queste sue frequentazioni paradisiache avessero origine ingannevole, satanica. Confessori e biografi furono compatti, invece, nell’affermare che erano autentiche. Dopo aver inondato i suoi direttori spirituali di lettere prolisse e d’elevatissimo afflato religioso, la monaca si spense nel 1699, a 54 anni, 40 anni dei quali trascorsi nel convento (che era stato in passato, casa sua). Nel 1797, dopo un lungo processo al quale la Chiesa sottopose la sua vita, setacciando la sua anima e i suoi presunti miracoli, fu infine dichiarata “venerabile” – ma non “beata”.
Maria Crocifissa della Concezione si chiamava Isabella Tomasi, era figlia del Duca di Palma, e antenata dello scrittore Tomasi di Lampedusa, che si ricordò di lei ne Il Gattopardo, anche se nel romanzo la chiamò “Beata Corbara”, un nome volutamente stendhaliano.
Ne Le Pecore e il Pastore, anche Andrea Camilleri, gran solutore d’enigmi, si occupò della “Lettera del Diavolo”. E nel testo enumerò alcune ipotesi su questa scheggia soprannaturale di corrispondenza. Vale la pena di riassumerle.
1) ci si chiede chi sia l’autore materiale della Lettera. Se è stata Maria Crocifissa stessa, a scriverla, “questo viene a dire che essa è venuta a conoscenza di un linguaggio segreto dei diavoli. Ma chi può averlo rivelato alla suora se non il diavolo stesso?”.
2) alcuni sostengono che quella Lettera la “scrisse sì la suora, ma sotto dettatura del maligno. E torniamo al solito problema: come fece a sapere come andava scritto quello che il diavolo le dettava?”.
3) se invece il diavolo si limitò a consegnare la Lettera alla monaca, “si torna daccapo a dodici: come faceva suor Maria Crocifissa a capire quello che c’era scritto”?
Lo stesso Camilleri, però, ricorda che la “scrittura” che compariva nella Lettera, a detta della stessa Crocifissa, era per lei un mistero incomprensibile.
Il che dovrebbe significare che né la suora né nessun altro hanno e avranno mai la “chiave” per interpretare quella Lettera.
E in effetti ogni tentativo di decifrare la missiva, fino all’epoca contemporanea – fino all’ultimo giocoso tentativo, nel 2017, di utilizzare, per farlo, uno specifico algoritmo –, si è rivelato fallimentare.
Dobbiamo dunque perdere ogni speranza di accedere al messaggio che Lucifero intendeva diffondere tramite suor Maria? Assolutamente no.
Perché, per riuscire a tradurlo abbiamo una sorta di “stele di Rosetta”: sappiamo cioè di cosa parla.
Nel libro scritto dal canonico Francesco Turano: Vita, e Virtù della venerabile serva di Dio Crocifissa della Concezzione, dell’Ordine di San Benedetto – nel Monastero di Palma, pubblicato nel 1718, troviamo ben descritti sia il senso , sia il contenuto della Lettera; insieme alla spiegazione di chi l’ha dettata e al motivo per il quale al centro della stessa si trova un “ohimé” vergato di proprio pugno dalla suora.
Veniamo a sapere che Crocifissa, in quel torrido agosto del 1676, viveva nel terrore: l’anima circondata, come dice il suo biografo, dalla “caligine infernale”. Nella cella, non appena le consorelle la lasciavano sola, irrompevano i demoni, che le suggerivano e le urlavano di continuo nelle orecchie bestemmie e “maledizioni, d’odio di Dio, de’ Superiori, e della clausura, con cento altre mostruose impressioni”. Poi, l’11 agosto, quelle creature dell’Inferno mutarono strategia: visto che con preghiere, consigli, e personali patimenti, suor Maria “toglieva loro i peccatori dalle branche, riducendoli à miglior vita, stimarono bene distaccarla dalla Misericordia, e tirarla dalla parte della Giustizia”. Le dissero che la Misericordia aveva fatto il suo tempo e si doveva lasciare spazio all’Ira di Dio, grazie alla quale, ai diavoli sarebbe stato restituito il loro ruolo di rastrellatori.
Le chiedevano dunque di pregare perché Dio punisse i peccatori, senza perdonarli; ma la monaca non si decideva a farlo. Allora le ordinarono che rivolgesse per iscritto la stessa supplica al Signore, quella che si era rifiutata di fare verbalmente.
Di nuovo furono respinti nelle loro pretese, e furibondi chiamarono come rinforzo il più potente tra tutti loro – che era Lucifero sicuramente, anche se non si presentò col suo nome.
Costui, appena giunto, disse: «“Facciamo per via d’un memoriale nostra ragione con Dio, chiedendoli ciò, che ingiustamente ci diniega”. Uno dei suoi scherani prese penna, e carta; intanto il Maligno gli dettava. “Il tenore della diabolica supplica fù ben capito dalla Serva di Dio, e conteneva una premurosa istạnza de castighi a’ malfattori.
Finita la scrittura in brevi, ma ignoti , e barbari caratteri , comandarono, ch’essa vi scrivesse appresso in conferma dell’esposto il suo nome: ma invece di quello, ferita d’acutissima doglia, [Maria Crocifissa] scrisse questa sola parola: Ohimè, ciò che veduto da quegli Spiriti, accrebbe loro sopra ogni eccesso le furie, onde uno di essi, dato di piglio al calamajo, il qual era di bronzo, fece impeto di lanciarglielo sopra la testa; però non ebbe potere di farlo, avendolo tolto Iddio a tutti loro per quella funzione di punto danneggiarla”. Se ne andarono i satanassi minacciandola di rappresaglie, ma poi tornarono presto, e il principe che li capitanava volle aggiungere al testo della lettera – che conteneva “quella tanto anelata orazione alla Divina Giustizia” – ancora poche righe, e di nuovo impose alla suora di approvare il tutto apponendo il suo nome, “altrimenti sarebbono riuscite vane le suppliche” dei diavoli. Preso atto che Crocifissa ancora si ostinava a non firmare, Lucifero le ordinò di “inviare al Cielo” il documento sotto forma di preghiera al Signore, “e ne impetraffe la rifulta con prestezza. Facendo il contrario la pagherebbe co’ castighi più terribili dell’Inferno”. Ma suor Crocifissa non si piegò mai a un simile diktat.
Dunque, riassumendo quel che abbiamo appreso dalla “cronaca”:
1) la lettera era un memoriale, destinato a Dio;
2) Il contenuto era una lagnanza di stampo “sindacale”: la richiesta d’un impiego a tempo pieno per la diabolica manovalanza, la restituzione ai demòni delle mansioni originali, nonché di pari passo l’invito di smetterla con gli eccessi di bontà e misericordia verso i mortali;
3) chi l’ha dettata era con tutta probabilità Lucifero in persona;
4) chi l’ha materialmente compilata era un demonio a lui sottoposto, che comprendeva ovviamente il suo linguaggio e sapeva come renderlo per iscritto in modo che fosse perfettamente comprensibile anche al Signore;
5) la lettera fu completata in due momenti differenti;
6) la prima parte (che arriva circa a metà del foglio), conteneva già tutto il senso della missiva; tant’è che il Diavolo chiese a Crocifissa di firmarla;
7) la suora si rifiutò e scrisse solo “Ohimé”, mandando in bestia i satanassi;
8) la seconda parte fu aggiunta più tardi, sempre col sistema della dettatura; e anche quella, la monaca si rifiutò di sottoscriverla;
9) tuttavia, fu chiesto a suor Maria di trasformare quello scritto in un’orazione, in modo che giungesse in Cielo: segno, si badi bene, che la monaca ne intendeva il senso, benché il dispaccio fosse scritto in caratteri diabolici.
Vorrei dare ora, se possibile, il mio modesto contributo alla decifrazione della cosiddetta “Lettera del Diavolo”.
In primo luogo, mi pare fin troppo evidente che la Lettera sia stata scritta dalla stessa Suor Maria Crocifissa.
Non sono un perito calligrafico, ma mi accorgo, come farebbe chiunque, che l’O di quell’ “ohime” che la suora ha rivendicato sempre come autografo, è identica a quell’altro segno “O”, circondato da sei piccoli punti, che dovrebbe appartenere alla calligrafia d’un satanasso:
In secondo luogo, pochi notano, chissà perché, che “ohime” non è l’unica parola scritta, e comprensibile, in italiano. C’è soprattutto, nella prima riga, un “io” rivelatore, la quarta parola leggibile:
Se quell’Io riguardasse il diavolo, non si capisce l’accanimento col quale Lucifero cercò di far firmare la Lettera alla suora. Doveva essere lui, a siglarla. Invece dobbiamo ritenere, a ragione, che quell’Io fosse l’Io di Maria Crocifissa, che doveva per l’appunto far suo il documento con una firma; e questo vale sia nel caso che l’avesse compilato uno dei diavoli invasori della sua cella per farglielo firmare, sia che l’avesse ideato lei stessa, in un delirio di presunzione, proprio per non firmarlo.
In terzo luogo: si tenga conto che il Seicento fu secolo per eccellenza “notarile”. Quindi, nonostante la profusione di alfabeti astrusi, la petizione ha l’aspetto di un documento completo e ineccepibile, redatto con tutti i crismi, e formalmente “ricevibile” dalle più alte sfere ultraterrene: per cui è posta bene in evidenza l’intestazione (probabilmente l’acronimo di “A Dio Onnipotente” o similia), la data (in italiano!) e, in calce, la firma e aggiungerei: il nome di almeno un testimone.
Di conseguenza, non sono affatto sicuro che, come dice il linguista Cardona (e il suo giudizio è riferito da Camilleri), l’intera petizione sia stata scritta in una lingua “inventata” di sana pianta.
È vero: i caratteri sembrano improvvisati là per là, come in altre ben note lingue “medianiche” o “extraterrestri”. Flournoy nel suo libro Dalle Indie al pianeta Marte, di qualcuna di queste trascrive gli strampalati caratteri alfabetici, ricevuti in trance dai sensitivi. Tutte queste “invenzioni”, a lungo andare, finiscono per somigliarsi.
Ma la Lettera, a mio avviso, nasconde la propria lingua autentica, esistente, dietro un “Codice artificioso e simbolico”.
Come l’indecifrato Disco di Festo, per il quale si può ipotizzare una corrispondenza tra ideogrammi e lineare “A” o “B” di Creta, nel caso della missiva di suor Crocifissa, mi pare si possa congetturare, da alcune caratteristiche dello scritto, che la lingua sottesa dal cifrario sia l’italiano, quello parlato in Sicilia nella seconda metà del Seicento; al massimo col contributo di qualche espressione latina.
Se fosse così, i simboli, dunque, corrisponderebbero ad altrettante lettere dell’alfabeto nostro e latino. Ma questa corrispondenza non è univoca, precisa e diretta, segno per segno, come – per fare un esempio – nel testo inglese della mappa del tesoro incastonata nello Scarabeo d’oro di Edgar Allan Poe: ci sono forme sincopate e stenografiche che la complicano. In più, accade che la stessa lettera alfabetica venga espressa con caratteri diversi, oppure ideogrammi differenti: ce ne sono di sicuro che condensano in un solo segno “Iddio” – un triangolo –, oppure “Gesù Cristo” – una croce a “X”, o la “Vergine Maria” – una “M” rovesciata, credo, a forma di tridente.
La prova di ciò che suggerisco starebbe soprattutto nella prima parte della Supplica: le parole vi appaiono nettamente separate e intellegibili, mentre si nota lo sforzo quasi “sovrumano” dell’autrice, suor Maria Crocifissa, per renderle irriconoscibili, e comunque per renderne ancora più oscuro il significato alle menti non onniscienti.
A quale scopo la nobile monaca, mistica, estatica, avrebbe architettato tutto questo? Non ho intenzione di calunniarla o di incolparla, Però si tenga conto che Maria Crocifissa non era affatto una suorina sprovveduta, ma figlia di duchi, colta, scrittrice raffinata e soprattutto donna di religione straordinariamente ambiziosa. L’intera messinscena della Lettera non deve farci dimenticare allora il suo significato più lampante: che il Demonio si era rivolto a Crocifissa scegliendola tra tutti i Giusti e i Puri del mondo intero, riconoscendo che solo lei aveva un canale diretto e privilegiato per far giungere al Signore ogni tipo di richiesta. Era in confidenza col Paradiso, e la suora voleva che i suoi contemporanei lo sapessero, che ne avessero la prova. E questo è il punto, perché la monaca ha messo in gioco in questo modo, col suo racconto, la sua pretesa o il suo diritto alla Santità.
[in copertina: La Negromante, di Angelo Caroselli]