I- La reggia di Bisanzio era dotata d’un trono particolare, una macchina il cui scopo era marcare, niente affatto simbolicamente, la distanza tra sudditi, supplici, ambasciatori, e la figura sovrana e inarrivabile dell’Imperatore. Questa “macchina della regalità” entrava in azione in modo rapido e imprevisto, tale da sorprendere.
Nel decimo secolo, il vescovo Liutprando da Cremona fu inviato a Bisanzio, come legato di Ottone Primo. L’imperatore, Niceforo II Foca, lo ricevette.
Il nunzio lo ritrae come un omuncolo mostruoso, quasi un pigmeo, mento pingue, pancia esorbitante, colorito bruno, d’occhio talpino, ma di volpesco ingegno.
Liutprando si sofferma poi a descrivere il suo trono di immensa grandezza. Lo adornavano uccelli di bronzo dorato, che facevano risuonare dolci melodie metalliche, e leoni dorati, non si sa se di legno o di bronzo, che ruggivano, movendo la lingua, e battevano la coda sul terreno. Il vescovo cremonese non si spaventò, né soddisfò il suo ospite ammirando quei prodigi, ma si comportò rigidamente come imponeva il protocollo. Lo spettacolo però continuava.
“Dopo essermi prosternato tre volte, alzai la testa e vidi l’imperatore, che prima mi era apparso seduto ad altezza moderata, elevato fin quasi al soffitto della sala e rivestito di abiti diversi dai precedenti. Non riesco a capire come ciò sia potuto accadere, a meno che il seggio dell’imperatore non sia stato elevato con la stessa tecnica degli alberi a vite del torchio”.
Insomma, il Sovrano bizantino non solo doveva sovrastare l’uditorio in modo irraggiungibile: ma il trono stesso doveva crescere a vista d’occhio, e – sotto lo sguardo attonito dei sudditi o dei diplomatici – incombere e trasformarsi in pulpito per terribili sentenze.
II- l sovrano del Mysore, Tipu, vissuto nella seconda metà del Settecento, odiava a tal punto gli Inglesi che, venuto a sapere che, proprio nel suo sultanato, il figlio d’un generale nemico era stato sbranato da una tigre, fece costruire “in memoria dell’avvenimento un gigantesco giocattolo meccanico che riproduceva la scena, a grandezza naturale, con l’accompagnamento delle urla della vittima e dei ruggiti della tigre emessi da alcune canne d’organo collocate all’interno” .
III- Palioli, il celebre e abietto ladro tolosano che esercitava con fortuna il suo mestiere nella Parigi del Cinquecento, si serviva d’una “poire d’angoisse”, ossia un orribile “bavaglio meccanico”, per mettere a segno le sue rapine più ardite senza timore che le grida delle sue vittime potessero far accorrere i soccorsi. La “pera” consisteva in un globo metallico che il mariolo infilava nella bocca dei derubati – sorpresi in casa o altrove – per impedir loro di urlare.
Il marchingegno era così predisposto: reagiva agli sforzi per rimuoverlo, facendo scattare una molla interna, che a ogni tentativo gonfiava la sfera e la espandeva nella gola. I disgraziati che il ladro visitava restavano senza soldi e rischiavano pure di morire soffocati. Palioli però, da gentiluomo, non si limitava a lasciare la sua invenzione, come souvenir, nel gargarozzo delle vittime, ma inviava loro in dono la chiave che azionava la poire d’angoisse all’inverso, e la riportava alla ridotta, eiettabile, forma originaria.
IV- Il “Dashi karakuri ningyo“, racconta lo storico degli Automi Mario G. Losano, è un grande carro cerimoniale a due piani che in certe ricorrenze viene portato dai giapponesi in processione. Vorrei paragonarlo a un carillon, il più gigantesco carillon della storia. Anche i carillon, come tutti i giocattoli automatici, sono Automi.
La creazione del “Dashi” risale al XVII secolo. Nella parte superiore, è popolato di “androidi” e animali stilizzati a grandezza naturale, che, mentre fendono la folla, si agitano e mettono in scena piccole rappresentazioni teatrali. Sul carro, ben visibili, ci sono due enormi «ruote dentate […] di diverso diametro, sormontate da una curiosa ventola a otto bracci. Ad un certo momento della rappresentazione questo meccanismo – chiamato “zenmai” – ruota vorticosamente e rumorosamente, attirando l’attenzione degli spettatori e portandoli a credere che sia esso a provocare il movimento delle figure del carro».
Invece, a muovere le marionette, sono i burattinai celati nel piano inferiore del dashi.
É l’apoteosi dei “falsi Automi”, oppure, ricorrendo all’iperbole di Losano, dei “falsi falsi Adami”, dove due negazioni danno: l’Uomo. Probabilmente in Giappone, in ogni contrada, era giunta la fama dei portenti meccanici e degli Automi che allietavano e sorprendevano le corti di Oriente e di Occidente, e il popolo voleva partecipare a queste meraviglie, non riproducibili , a causa delle scarse conoscenze tecnologiche, a livello popolare e artigianale. Il “Dashi” anticipava per la plebe i prodigi che sarebbero stati del “Turco giocatore di scacchi”, e, come in quel famoso automa, non c’erano segreti da svelare, visto che il vero meccanismo era azionato da una mano umana, nascosta al grande pubblico.
É pur vero che l’attrazione che gli uomini provano per gli “androidi” è tale da superare la fascinazione di qualsiasi zoo. Per questo si prestano volentieri e si consegnano a ogni frode,ogni raggiro.
Ancora oggi nelle piazze si esibiscono artisti di strada che fingono di essere robot, si muovono a scatti brevi, simulando una totale impassibilità. La loro bravura consiste, di solito, proprio nel mantenere immobile la stessa espressione del volto, mentre si affaccendano in brevi pantomime più o meno espressioniste.
Anche nell’opera I Racconti di Hoffmann di Offenbach, il virtuosismo della cantante e della ballerina che gioca la parte di Olympia, risiede nella sua capacità di tramutarsi in modo credibile in una “bambola meccanica”, e la sua prestazione sarà tanto più applaudita quanto più saprà cimentarsi nei movimenti automatici di una “andreide”.
Non aveva già detto Julien Offray de La Mettrie, che l’Uomo, in realtà, era una Macchina? Forse non lo è ancora: certo, vi aspira.
Se non altro per apprezzarsi e darsi un senso come “curiosità”. La nostra “meccanicità” è l’esotico che abbiamo in noi.