IV- Che cosa, propriamente, si imita? Si imitano le “tracce” o i particolari abnormi”, i tic, i nasi grossi, gli addomi adiposi, i sederi pizzuti. Basta un gesto del mimo per incollare un uomo a un suo difetto; e questo è appunto il senso della “caricatura”: caricare un dettaglio, fino a farlo apparire talmente esorbitante da cancellare tutto il resto. E quello che vale, in questa operazione, per l’aspetto, lo si può fare anche per la voce: un campo in cui un’erre moscia, un palato bleso, una certa affettazione, valgono quanto una gobba o un naso storto.
Gli imitatori, i Clowns, gli interpreti di slapstick, e i trasformisti del vaudeville in genere sembrano, ma direi sono, altrettanti soggetti affetti da Sindromi davvero prossime alla Tourette. Che non siano rubricati sotto questa “Malattia”, né studiati dai clinici come tali, dimostra una semplice verità: che la differenza tra un matto e un uomo di spettacolo (o di cultura) baciato dal successo è molto labile, e che se un tourettico non trova il giusto pubblico, davanti a cui esibirsi, e soprattutto non fa universalmente ridere, rischia il manicomio.
C’è del tourettico, dicevamo, in ogni grande comico. Chaplin, lo ricorda Jürgen Habermas in memoria dell’amico scomparso, imitò Theodor Adorno in un istante, fulminandolo.
A un party, il filosofo protese la mano verso l’attore che aveva vinto il premio Oscar per I migliori anni della nostra vita, Harold Russell; il gesto è automatico, non è educazione guardare quello che si stringe. Invece d’un arto energico o molliccio, Adorno attanagliò un moncherino metallico, poco meno affilato di un uncino. L’attore, un reduce vero, era un mutilato della Seconda Guerra e aveva, impiantata, una protesi meccanica. Un’ espressione di sconcerto, forse di schifo, permeò il viso di Adorno senza che volesse, mettendo a repentaglio la sua consumata “maschera borghese”. Charlie Chaplin, che era tra gli ospiti, si accorse del suo stravolgimento: lo mise subito in burla, in pantomima, prima imitando la sua reazione al tocco della mano assente, poi il suo tentativo di recuperare un volto solidale, “inoffensivo”, e di sminuire l’accaduto, infine la bonomia con cui fingeva di accogliere l’imitazione del grande Comico.
Così è la parodia: a scatti successivi, a scatole cinesi, una risata dentro e dietro l’altra, senza fine. Gli antichi, soprattutto i cristiani, avevano in orrore il riso, proprio per questo, che al contrario delle lacrime, può non finire mai.
Sacks avrebbe diagnosticato, immagino, che Chaplin era tourettico.
Anche i satirici migliori sono sospettabili d’essere tutti affetti da Tourette. Penso a Karl Kraus, uno dei più grandi, tra di loro. La satira divenne con lui talmente istantanea, sofisticata e vertiginosa, che la realtà faticava a tener testa ai suoi sberleffi, e arrancava, trafelata, dietro alle sue trovate: la realtà di cui con spirito profetico e combinatorio, aveva previsto e parodiato già tutte le mosse.
Certamente il mimo gentile e silenzioso interpretato da Jean-Louis Barrault, ne Les Enfant du Paradis, doveva sembrare a Sacks un tourettico. Per non parlare di Lewis Carroll, che amava troppo i giochi di parole e, guarda caso, era pure balbuziente.
Le follie, le manie di cui abbiamo parlato finora hanno di sicuro ispirato Zelig, il capolavoro di Woody Allen, un personaggio chiaramente “autobiografico”. Che aggiunge ai nostri ritratti un tocco di perturbante contemporaneità.
Il repertorio di Jim Carrey, superbo in Mask, o in Bugiardo, bugiardo, sembra attinto, in quest’ottica, da un manuale d’osservazioni neurologiche. Robin Williams, poliedrico, proteiforme, maestro nel “fare le voci”, genio dell’improvvisazione, si suicidò, come Alighiero Noschese, precipitando nell’abisso della paranoia, schiantato dall’ansia.
In ogni caso: l’Imitazione è stata la palestra con la quale, fin dalla più tenera età, il Comico s’è addestrato a assimilare la realtà, un modo contorto di prenderne possesso.
Testimonianza di Totò:
«Più di una volta, camminando per la strada, mi sono sorpreso a seguire qualche tipo stravagante, osservandone minutamente i gesti e assimilandone il modo di camminare, di muoversi, di salutare e di gesticolare.
Se fossi uno studioso di psicoanalisi, dovrei definire questa mania come il “complesso dei fratelli siamesi”. Infatti, non appena noto un tipo che mi colpisce per alcune caratteristiche, mi sembra che un fluido mi leghi a lui, ragion per cui divento l’altra parte dell’individuo che osservo, costituendo – con lui – un’ideale coppia di gemelli.
Da ragazzo mi chiamavano proprio per questo ” ‘o spione”».
V- Purtroppo il malato affetto da “Malattia del Sosia” (almeno, come l’intendo io), quasi mai riesce a rompere l’involucro d’angoscia che l’attanaglia, a trascinare fuori dal suo spirito le mille anime che ha trangugiato e a riderne, o cercare di utilizzare il suo talento “imitativo” per far ridere gli altri. Alla stregua del Comico provetto, anche lui trae sollievo dall’Imitazione, ma rimane tragicamente un gradino sotto alla parodia, e annaspa senza uscirne.
Si può dire che la forma di compulsione a cui è soggetto, la coazione a “ripetere” le facce, i gesti altrui, l’ecolalia monotona oppure vorticosa, dipendono essenzialmente dal suo non saper rompere l’incantesimo gettato su di lui da tutto quanto lo circonda.
Anche il Tic mi pare, troppo spesso se non sempre, una reazione a quello che non c’é o non é avvertibile con i canoni normali. È associato, lo testimoniano i portatori, a un cumulo interiore di Energia che deve essere assolutamente “rilasciata”. Vale come uno “schermo energetico”, penso, simile a quelli messi in mostra dagli effetti speciali dei film di fantascienza.
Vorrei aggiungere infine un’esperienza personale, non troppo dissimile da quella vissuta da Oliver Sacks, quando si è imbattuto nella sua “Donna della Folla”.
Sono salito su un autobus e ho inteso, immediatamente, una passeggera che sedeva di fronte all’entrata, fare un grido d’uccello. Pensavo fosse una donna con problemi mentali, perché ha ripetuto più volte il suo verso, in modo compulsivo. Mi sono accorto invece che quello era il modo in cui lei “marcava” l’arrivo sul bus delle persone che le incutevano terrore. Ogni nuovo passeggero, un grido d’uccello. Esorcismo, sicuramente, ma anche allarme. Non solo per sé, per invisibili altri. Li avvertiva. Questi malati speciali si sentono, dentro la metropoli, esattamente come nella giungla.
Concludo: gli Uomini della folla esistono, non sono un’invenzione letteraria. Sono i comici, sono gli attori “dai mille volti”, sono gli uomini e le donne spiritosi che amano i “doppi sensi”, sono, anche, povere vecchiette, che si difendono come possono in un mondo popolato di ceffi ostili, di voci che sbraitano e ti insultano.
Tourettici, più spesso di quanto crediamo, siamo noi stessi. Nella falsa solitudine di noi davanti allo specchio, per esempio. Quando proviamo smorfie buffe, pose minacciose e digrignate maschere che ringhiano contro la realtà; quando ci lanciamo inutili sguardi seducenti. Perché? Direbbe Nathaniel Hawthorne: per godere, come la misteriosa Miriam del suo Fauno di Marmo, il brivido, salutare, di un momentaneo transito dentro la Pazzia:
“[…] immaginandosi affatto sola, la bella Miriam si dié a gesticolare con stravaganza, digrignando i denti, dimenando selvaggiamente le braccia, battendo il piede a terra. Era come se si fosse appartata un istante, unicamente per carpire il sollievo d’un breve accesso di follia“.
[in copertina: Jerry Lewis in Artisti e Modelle (1955) di Frank Tashlin]