I- L’imitazione di Cristo non era autentica, per il devoto, se quegli non prendeva parte alle sue piaghe. “Viva la croce! Viva il patire! O Sommo mio Bene, più non tardate; crocifiggetemi con Esso voi” – così si esprime, in pieno delirio mistico, santa Veronica Giuliani. La santa chiamava il Crocifisso il “Portinajo del cuore”.
Tuttavia, anche se il fascino esercitato dalla Croce era immenso, reperirne una della misura giusta, e issarcisi sopra, era poco pratico. Per subire una passabile Passione, chiodi e corone di spine si trovavano più a buon mercato, e soprattutto, erano facilmente camuffabili sotto abiti e copricapo. “Paolo portò uno stecco nella carne, per non insuperbire” ricorda Lutero. Era una “Spina spirituale”, ma altrettanto dolorosa, e fu probabilmente quello il primo “cilicio” incorporato da un cristiano.
Il desiderio di ripetere su se stessi le umiliazioni del Calvario era tale che il mistico ricorreva spesso al bricolage. Santa Rosa da Lima (1586-1617) – racconta il suo confessore –, s’era fatta artigianalmente una corona di spine, infiggendo tre ordini di chiodi su una targhetta d’argento, “in numero di trentatré per fila”, a “memoria degli anni di vita di N. S. Gesù Cristo, il che faceva in tutto novantanove chiodi. E fu con rapimento mirabile che si calcò questa corona. E poiché i capelli avrebbero potuto impedire che i chiodi si infilassero bene nella cervice, si rase il cranio, ripetendo l’opera ogni volta che i capelli rispuntassero e curando di lasciarne alcune ciocche sulla fronte in modo da celare la corona nei punti dove più facilmente era scopribile”. Inoltre, “tutti i giorni variava la posizione della corona, affinché i chiodi aprissero nel cranio piaghe nuove. Il venerdì se la calava fino al cervelletto, affinché ne fossero cinte le cartilagini delle orecchie che sono, dopo gli occhi, la parte più sensibile, e ce la lasciava fino a domenica”.
II- Cristo fu pure attaccato alla colonna, e anche lo staffile ottenne il giusto rilievo nel campionario delle autotorture da infliggersi, per chi voleva replicare la Passione.
Una variante della cosiddetta “disciplina”, consisteva in una sonora dose di frustate da impartirsi durante l’orazione, preferibilmente dinanzi a una sacra immagine.
L’estasi raggiunta, dolorosa, ma così a buon mercato, si rivelò un toccasana per i fanatici più impazienti o più indigenti. Tali erano, secondo Gibbon, gli abitatori dei monasteri medievali:
“È una massima del diritto, che chiunque non può pagare con la borsa, deve pagare col proprio corpo, e i monaci adottarono la pratica della flagellazione, doloroso ma economico equivalente. Secondo una fantasiosa contabilità, un anno di penitenza fu quotato tremila colpi di disciplina, e tali erano l’abilità e la pazienza del famoso eremita san Domenico Coricato, che in sei giorni poteva saldare il debito di tutto un secolo con una flagellazione di trecentomila colpi. […] Ogni cento staffilate, il penitente si purificava recitando un salmo; e tutto il Salterio, accompagnato da quindicimila staffilate, equivaleva a cinque anni. Molti penitenti d’ambo i sessi imitarono il suo esempio”.
L’Autoflagellazione non era appannaggio esclusivo della bassa manovalanza dei religiosi. Anche i santi se ne inebriavano. Una volta, racconta il cardinale Wiseman, sant’Alfonso Maria de’ Liguori si fustigò da solo con tale virulenza che il suo segretario fu costretto a strappargli la sferza dalle mani per impedirgli di flagellarsi a morte.
Venne poi un’età per il cattolico-romano, in cui era facile procurarsi un’indulgenza e scalare col denaro le vette del Paradiso: presero così piede persino le Penitenze sanguinose per Interposta Persona. “Poiché era permesso presentare dei sostituti, un gagliardo flagellante poteva espiare con la propria schiena i peccati dei suoi benefattori”, ci informa ancora, l’Anti-Papista, Gibbon.
[in copertina: Processione di Flagellanti, di Francisco Goya (particolare)]