I- La Bastiglia, carcere spaventoso, era il simbolo a Parigi dell’ingiustizia e della crudeltà del dispotismo. Fu il cardinale Richelieu, nel Seicento, a eleggerla “prigione di Stato”. Le sue lugubri torri, alte 24 metri, erano visibili da tutta la città. Per essere reclusi lì dentro, non erano necessari né un processo né una condanna, bastava solo una lettera d’accompagnamento per il governatore. Chi superava quella soglia quasi sempre non ne conosceva la ragione, e poteva restare a marcire nelle celle umide e malsane del sottosuolo anche per decenni.
Ospitò personaggi celebri, non come visitatori curiosi, ma come detenuti; tra questi: Voltaire, il conte di Cagliostro, Fouquet, il marchese de Sade. Probabilmente il più famoso tra i suoi carcerati fu anche, benché suoni strano, il meno “conosciuto”: la Maschera di Ferro, un uomo misterioso che Dumas descrisse come il fratello gemello di Luigi XIV, le cui sembianze, e la cui identità, furono celate a tutti per non mettere in pericolo il trono del Re Sole, Ipotesi assolutamente romanzesca e del tutto priva di fondamento. Di conseguenza, molto popolare.
Persino Luigi XI, detestato e diabolico sovrano di Francia, si confinò e visse lì dentro, in una stanzetta senza lussi, che giudicava il solo luogo di tutta Parigi nel quale poteva sentirsi “al sicuro”.
La Bastiglia pareva ideata al puro scopo di far impazzire i carcerati. E spesso ci riusciva. Narra il Lacroix, che nei sotterranei era racchiusa una cella “il cui pavimento era conico, con la punta rivolta verso il basso, sicché era impossibile mettersi a sedere, stendersi, o stare in piedi”. Un incubo “reale”, reso Architettura.
La prigione venne assalita dai parigini inferociti il 14 luglio 1789, e a questo atto ribelle, fino allora inaudito, si fa tradizionalmente risalire l’inizio della Rivoluzione francese.
In realtà, la folla che assediava la fortezza non si era concentrata per distruggere il simbolo più vistoso dei soprusi dell’ancien régime: cercava solo di penetrare là dentro per espropriare le armi dell’arsenale e soprattutto per impadronirsi della polvere da sparo necessaria a caricare i cinque cannoni che aveva già requisito altrove.
La Bastiglia da tempo era in disarmo, avviata verso la demolizione, e in quel momento ospitava appena sette detenuti. Tra questi c’erano due malati di mente, e un quasi folle che vegetava lì da trent’anni: Claude-Auguste Tavernier, che era stato riconosciuto senza prove complice di Damiens, il blando “regicida” di Luigi XV.
Fu l’ostinato rifiuto di capitolare del governatore del carcere, il marchese de Launay, a accendere gli animi e a far precipitare la situazione. Impaurite dall’enorme e minaccioso assembramento, le poche guardie aprirono a sua insaputa le porte ai rivoltosi; i prigionieri furono liberati e il governatore venne massacrato. La sua testa recisa fece il giro della città, finché venne sventolata sotto le finestre del palazzo reale di Luigi XVI. De Launay fu dunque il primo decapitato della Rivoluzione francese, che anche a questo tipo d’esecuzioni dové, poi, la sua fama mondiale.
II- Dal punto di vista del Popolo, la “Presa” della Bastiglia può essere considerata la vera Scintilla della Rivoluzione, l’inizio della sollevazione armata.
Ma dal punto di vista della Storia, quel rivolgimento fu certamente preparato prima.
Secondo Kleist, l’ancien régime non crollò a colpi di cannone, ma a colpi di parole.
“Forse” – suggerisce il grande scrittore tedesco – “fu il fremito di un labbro, o un ambiguo gioco col polsino, a provocare in Francia il sovvertimento dell’ordine delle cose”.
Kleist, con intuizione fulminea, riconosce il momento preciso in cui i destini di un’intera Nazione presero una piega rivoluzionaria. Il suo eroe é Mirabeau. Il momento: quello in cui il Gran Cerimoniere di Luigi XVI, Henri-Évrard de Dreux-Brézé, al termine della riunione degli Stati Generali, il 23 giugno del 1789, rientrò nell’aula, e ai deputati del Terzo Stato, che ancora indugiavano lì dentro, intimò di sciogliersi, rimproverandoli così: non avevano udito, quei signori, l’ordine del re, di separarsi?
A questo punto, niente é deciso, il fermento é enorme, ma la Storia può prendere ancora un’altra piega, ritardare, avvilupparsi su se stessa.
Ma adesso prende la parola Mirabeau. La sua risposta comincia in modo affabile, condiscendente: “Sì, abbiamo udito”, ripete.
Ma, avverte Kleist, é solo un modo per prendere tempo: mentre parla senza interruzioni, “si vede bene che ancora non sa quello che vuole”. Finché in crescendo, la sua mente si rischiara, l’eloquio diventa fluido e l’eroe rivoluzionario é pronto a osare, e dice: “Noi siamo i rappresentanti della Nazione. […] la Nazione dà ordini, non ne riceve”. Poi si slancia ai vertici della temerarietà: “Andate a dire al vostro re che noi non abbandoneremo i nostri posti se non costretti dalle baionette”. Così, la Rivoluzione é sancita, é di fronte agli occhi del mondo. Assistiamo alla Nascita della Storia. “Sono certo – commenta Kleist – che iniziando in tono così affabile non pensava ancora alle baionette con cui avrebbe concluso”.
Lo scrittore festeggia questo modo di pensare, di dire, non premeditato. Kleist crede infatti che, sugli argomenti che contano, sia necessario cominciare a parlare – anche con il primo conoscente che si incontra – a ruota libera. La soluzione si presenterà da sola, come un frutto autonomo del discorso. “L’idée vient en parlant”, é la formula usata da Kleist.
Gli esempi della “produttività” di questo modo di ragionare, il letterato li scova dappertutto, e – a riprova che sta parlando d’una Facoltà Fantastica insita in tutti noi – cita una favola di Jean de La Fontaine: quella in cui la volpe, per salvare il leone, imbastisce un’arringa in fretta e furia dimostrando – ma solo alla fine di un discorso per il resto rabdomante e sconclusionato – che il più malvagio tra tutti gli animali é l’asino.
Questa tipologia di pensiero “kleistiano”, la definirei: un’ “improvvisazione esatta”.
Molto presto circolarono versioni alternative alle parole “storiche”, e insieme “immortali” che Mirabeau pronunciò nell’Assemblea. Ci fu, tra i testimoni, chi sostenne di non averle mai udite, chi l’attribuì ad altri, chi disse che erano state molto più prudenti. Questo è il pedaggio che in tutti i tempi è dovuto alla Fama. Il grand’Uomo, la gran Donna, si prestano per definizione a essere fraintesi e su di loro le Leggende hanno, prima ancora che la Verità, un diritto di prelazione. Un esempio: secondo alcune cronache, in tempi pre-rivoluzionari il conte di Mirabeau venne accusato di aver sedotto una fanciulla. Chiese e ottenne che, al processo, come prova a discarico, venisse messo agli atti un suo ritratto. Precisa il caustico Chamfort: il conte era “bruttissimo”.
A giudicare dall’immagine acclusa qui sotto, l’aneddoto é privo di qualsiasi fondamento. A meno che il vanitoso Mirabeau non abbia poi prezzolato un pittore compiacente perché sorvolasse su certi dettagli della sua figura (dicono fosse devastato dal vaiolo). Oppure, più probabilmente, che fosse talmente astuto da farsi ritrarre come un uomo disgustoso, pur di scampare così alla condanna.