Il 6 agosto 1945 gli Stati Uniti sganciarono su Hiroshima una bomba atomica; credo, nelle intenzioni di Truman, che l’ordigno fosse stato scagliato sulla pace, più che sulla guerra.
Un medico giapponese, Michihiko Hachiya, ha tenuto un diario dal 6 agosto al 30 settembre 1945: é il resoconto di cinquantasei giorni nella vita di un abitante di Hiroshima.
Hachiya registra i segni di una catastrofe inaudita con “precisione, delicatezza e responsabilità”, scrive Canetti in Potere e Sopravvivenza. Il medico paragona Hiroshima a Pompei, ma il confronto è debole. L’orrore dello sterminio é indicibile, tuttavia un uomo che ha visto la nube gliela descrive, “sbalordito dalla sua bellezza” e dal suo “splendore colorato”. La città é piagata, agonizza, si spopola, resa ombra e maceria di sé dalla bomba: si erigono innumerevoli pire e cataste di cadaveri, che bruciando emanano, dice Hachiya, un “odore di sardine”.
L’esplosione ci ricorda – lo scopriamo con un brivido – la pesca di frodo, e le sue inutili, eccessive, sovrabbondanti stragi di pesci.
Ma l’aspetto sorprendente di questo diario é che il medico “non riesce a rendersi conto della cosa con cui ha a che fare. Solo il settimo giorno, ricevendo una visita dall’esterno, apprende che era una bomba atomica”. Eppure il Giappone era in guerra da anni; eppure di un’arma segreta, totale, che avrebbe deciso le sorti del conflitto, si parlava da tempo nel resto del mondo; il dilemma era: chi l’avrebbe costruita per primo, Asse o Alleati?
Le radiazioni contagiano i sopravvissuti; ma ciò che in tutti loro sembra ancor più contagioso, è il senso di vergogna.
Kenzaburo Oe testimonia d’aver conosciuto una ragazza dimessa dall’ospedale che, ancora un anno dopo Hiroshima, con estremo pudore gli confessò di vergognarsi di se stessa. Dopo la degenza, viveva tappata in casa, come moltissimi altri. Lo scoppio aveva deturpato il suo volto, per sempre. La vera ferita però la portava dentro di sé, e quella neppure il tempo era riuscito a cicatrizzarla. “Come possiamo comprendere il senso di vergogna che le vittime dell’atomica hanno delle loro esperienze, senza vergognarci anche di noi stessi?” – commenta Oe –: “Che terribile inversione di sentimenti!”.
Le bombe scagliate sui cittadini inermi di ogni schieramento, durante la seconda guerra mondiale, provocavano in genere due reazioni concomitanti tra i superstiti: assuefazione, rimozione. Si aveva fretta di dimenticare. Con Hiroshima, e appena pochi giorni più tardi, il 9 agosto, con Nagasaki, alle vittime appare impossibile convivere con gli effetti, anzi, con l’idea stessa, del bombardamento atomico. La “dignità” dei sopravvissuti è compromessa in modo permanente.
È evidente che le coscienze hanno subito un atto di violenza “inespiabile”, come lo è stato l’Olocausto degli Ebrei.
Perciò le vittime provano più onta che non chi ha sganciato la Bomba. Non perché hanno perduto: ma perché impersonano tutti noi, l’Umanità.
Per Kenzaburo Oe, le Bombe dell’agosto 1945 hanno rappresentato “l’apice della miseria umana”. Lo scrittore ricorda ancora che all’università frequentava uno studente originario di Hiroshima. Durante i quattro anni trascorsi insieme, questo amico carissimo non gli aveva mai parlato dell’attacco atomico che – lui presente – aveva incenerito la sua città. “Sicuramente aveva il diritto di rimanere in silenzio”.
Questo silenzio senza appello, estremo rifugio alla vergogna, la macchia, l’umiliazione, lo sentiamo come nostro. È il marchio dell’Arma Totale impresso sulle anime, simbolo della pura Atrocità verso cui tende ogni Guerra.
Anche quelle che proseguono ai nostri giorni nell’indifferenza generale.
[in copertina: veduta di Nagasaki dall’aereo che l’ha bombardata]