Tommaso, apostolo tra i primi di Cristo, era gemello, e pescatore. Ebbe il compito di predicare ai Persi e ai Medi. Sconfinò pure in India e laggiù, a Calamina, fu martirizzato: lo trapassò la lancia d’un persecutore.
Gli altri Vangeli lo nominano solo di sfuggita, mentre Giovanni lo ritrae protagonista di episodi importanti: è a lui che durante l’ultima cena Gesù indica la strada per chiunque voglia seguirlo: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per me”. Ma soprattutto san Tommaso è proverbialmente conosciuto per aver dubitato che Cristo, dopo esser stato crocefisso, fosse mai risorto dal sepolcro. Così annunciò agli altri Apostoli il vangelo della propria Incredulità: “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Giovanni, 20, 24). Otto giorni dopo fu accontentato, e gli fu concessa la “prova della Verità”. Allora cadde in ginocchio davanti al Risorto mormorando: “Signor mio e Dio mio”.
L’importanza del gesto blasfemo di Tommaso è cruciale, e questo passo, come altri nei Testamenti, ha un profondo significato “didascalico”. Il fatto che il santo “non abbia avuto fede”, gli è stato perciò facilmente perdonato dalla Chiesa Cattolica: qualcuno degli Apostoli doveva sobbarcarsi una tale incombenza un po’ sudicia, e svolgere quel compito importante e istruttivo. Colpire Uno col dito proteso, voleva dire educarne poi cento, poi migliaia, poi milioni.
Si insegnò così, attraverso la sua figura, e l’esempio degli altri sodali, che è inutile ostentare scetticismo su quei passi dei Vangeli che narrano la Resurrezione di Gesù: inutile, perché i più “diffidenti”, risulta agli Atti, erano già stati i suoi Apostoli. Convincere loro sarà più duro, per il Salvatore, che non cristianizzare il resto dell’Umanità.
I Vangeli – spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica (§ 643) – « ci presentano i discepoli smarriti e spaventati (Giovanni 20, 19) perché non hanno creduto alle pie donne che tornavano dal sepolcro e “quelle parole parvero loro come un vaneggiamento” (Luca 24, 11 e Marco 16, 11-16, 13). Quando Gesù si manifesta agli Undici la sera di Pasqua, li rimprovera “per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato” (Marco 16, 14) ».
Eppure: Gesù aveva già fatto risorgere, per miracolo, Lazzaro, e il figlio della vedova. Questi prodigi erano stati visti e testimoniati dai suoi discepoli. Ma quando egli stesso è ricomparso dopo la morte, gli Apostoli sono caduti preda del panico o, come Tommaso, dall’incredulità. Pensavano forse che fosse più facile resuscitare un morto qualunque che resuscitare se stessi. Ma perché? I miracoli sono paralleli, e chi ha certi poteri, può esercitarli in tutte le direzioni. È come se Pietro e gli altri, fintanto che frequentavano Gesù, avessero avuto una Pentecoste al contrario, la Pentecoste dell’Imbecillità.
Resta il fatto, incontestabile, che dopo aver intinto il dito nelle piaghe che deturpavano il corpo divino, Tommaso è diventato il campione indiscusso di due categorie di persone difficilmente dissociabili: i “Diffidenti” e “Quelli a cui è impossibile darla a bere”.
Sospettare, verificare, appurare di persona, dopo l’exploit del santo, sono diventati altrettanti Comandamenti del Buonsenso Comune. Del Buonsenso, si noti, e non della conoscenza scientifica: perché per secoli – fino a Bacone e Galileo –, ignorando l’esempio di Tommaso, gli scienziati hanno tardato a indagare i fenomeni della natura con lo stesso metodo “sperimentale”. Il che non è dipeso da pigrizia o sciatteria: ma è dovuto piuttosto all’evoluzione, alla “storia” della Verità, la cui percezione, in occidente, ha sicuramente subito una svolta in senso “cristiano”, impressale anche dal comportamento “dissacratorio” dell’apostolo in questione.
Così, mentre la Verità Religiosa si arroccava sempre di più nei Dogmi di Fede, dei quali solo le Chiese possedevano la chiave interpretativa, per gli altri, la gente comune, nelle occupazioni e nelle relazioni di tutti i giorni, la Verità era diventata lo spazio designato su cui esercitare un sano scetticismo.
Il Vero, quando è troppo evidente, o ci sfugge , o ci insospettisce: la Logica della Diffidenza – soprattutto quella infarcita di Senso Comune – vuole che il Vero non somigli mai a quello che l’ingenuo crede sia la Verità. Perciò, in genere, e sempre più rispetto al passato, “vivere, per noi, vuol dire diffidare”.
Con l’entrata nella modernità, le cose sono sicuramente peggiorate. Siamo divenuti talmente sottili che ci rifiutiamo di riconoscere come vere le evidenze più grossolane. Ci attardiamo a scrutare al microscopio il pelo nell’uovo o la pagliuzza, e non ci accorgiamo della trave che può cavarci un occhio. Poe (La Lettera Rubata), Chesterton (L’Uomo invisibile), James (La cifra nel tappeto, La morte dell’idolo, La bestia nella giungla), hanno scritto pagine imprescindibili su una strana caratteristica del nostro modo di osservare la Realtà: proprio per aver troppo inforcato le lenti lungimiranti del Sospetto, spesso noi non ci avvediamo di ciò che è più vicino, e più elementare. Poe, nell’ultima avventura di Dupin, parla di “eccesso di evidenza”, come se una certezza fin troppo eclatante fosse un difetto dei sensi o della Logica. Sciascia (nell’Affaire Moro), ribattezza quel difetto con la perifrasi ossimora “invisibilità dell’evidenza”. La lettera ricercata da tutta la polizia è appesa, in bella mostra, nella stanza del ricattatore; l’uomo invisibile è un postino, figura talmente abusata per le strade, che nessuno la nota più, fa parte del paesaggio urbano, come un platano. La parola chiave di un’intera e voluminosa opera letteraria è lì, sotto lo sguardo di tutti. La si indica, la si sottolinea: sfugge ugualmente. Vediamo (come ci avverte Dupin) la successione di piccoli caratteri che denuncia sull’atlante una città minuscola, ma non leggiamo la scritta enorme, con le lettere grandi e separate, che designa sulla stessa carta geografica una regione sterminata.
Abbiamo pretese molto strane, sulla Verità. Il fatto è che l’Uomo (inteso, non come sesso, ma come Essere Umano) non è un animale razionale. Al massimo, è un animale razionalizzatore (con tutti gli eccessi che questo ruolo comporta). L’Uomo, la Donna, sono soprattutto animali che, ragionando, “combinano”: a volte con una certa dose di Logica, altre volte, per puro gusto estetico, o ludico, altre ancora per paura, o per irresistibile idiozia. La Verità “tangibile”, il dato immediato, il comportamento obbligato, non li soddisfano mai. Dispiace per gli Illuministi come d’Holbac, ma la Verità non è mai stata “semplice”, per l’Uomo Moderno. E credere che “l’errore sia complicato, malsicuro nel suo cammino, pieno di andirivieni” è pura utopia, smentita da secoli di informazione giornalistica e di truffe ben congegnate.
Anzi: adesso c’è persino da dubitare che l’Umanità possieda un “Buonsenso” generalizzato a cui fare appello: dev’essere un fattore storico collegato alla borghesia mercantile, destinato a tramontare insieme a quella classe.