Qualche tempo, fa conversando con una giovane doppiatrice , ricevetti da questa una rivelazione allarmante; mi disse che la professione di doppiatore era destinata a scomparire, sostituita da un’intelligenza artificiale in grado di captare i parametri vocali di un attore e tradurli simultaneamente in qualsiasi lingua esistente; l’impatto di questa tecnologia sull’attività dei doppiatori, attività artistica nel senso più alto (i doppiatori sono attori) rischia di essere devastante sul piano sociale e sul piano estetico e spirituale; i doppiatori rischiano di perdere la sorgente del loro lavoro e ciò non è soltanto ingiusto, è immorale; rischiamo la fine del doppiaggio umano, che ha avuto un ruolo essenziale nella bellezza del Cinema, il Cinema che noi amiamo, e ciò è tragico.
In un interessante articolo sul web del 2021 Alberto Pigliapochi pone giustamente questo interrogativo : può l’intelligenza artificiale , dunque una macchina restituirci fedelmente l’emozione creata dall’attore sullo schermo, ed io aggiungo rendere possibile la strana magia del doppiaggio, per cui le parole dette in una lingua diversa dalla nostra lingua madre ci arrivano non semplicemente tradotte, ma risuonano direttamente nella nostra interiorità come emozioni: amore, odio, gioia, tristezza, allegria … Sostituire il lavoro estremamente raffinato e complesso del doppiatore? Sottilmente ci viene suggerita la risposta: no. Ma ammettiamo che l’intelligenza artificiale possa essere estremamente sofisticata, talmente sofisticata da essere in grado di sostituire con successo il lavoro del doppiatore; ciò comporterebbe per l’imprenditore che gestisce questa attività una notevole riduzione dei tempi di lavorazione, un risparmio significativo giacché non dovrebbe più pagare i doppiatori e alla fine come sempre un notevolissimo profitto; comporterebbe, lo abbiamo detto, la perdita del lavoro per centinaia, forse migliaia di bravi professionisti e un generale, inarrestabile impoverimento spirituale. Guadagnare il più possibile nel minor tempo possibile, è questa l’intenzione meschina ma anche stupida che informa tante attività produttive; è giusto demandare a una macchina un’attività intellettuale fondamentale ed estremamente creativa (l’intelligenza artificiale minaccia diversi settori della vita intellettuale, fra cui il lavoro degli sceneggiatori, dei giornalisti, forse anche degli scrittori), affidare alla tecnologia l’intera nostra esistenza, come di fatto stiamo facendo, noi crediamo scegliendo liberamente, in realtà persuasi, convinti, alla fine sottilmente costretti da chi produce e vende la tecnologia?
La proposta fondamentale è fare prima, arrivare prima, lavorare il meno possibile, forse non lavorare affatto; in cambio noi rinunciamo ad essere sensibili e intelligenti. Il destino dell’umanità futura potrebbe essere analogo a quello degli Eloi nella Macchina del tempo di H.G. Wells: fanciulli inconsapevoli, non pensano, non amano, oziano, si divertono e costituiscono il cibo dei laboriosi Morloks.
L’uomo è il suo lavoro, la sua fatica, il suo tendere verso qualcuno o qualcosa; se questa tensione viene a mancare l’uomo e non soltanto l’uomo in quanto creatura consapevole cessa di esistere; è la solita invettiva vagamente nostalgica contro la tecnologia? Assolutamente sì .
Tuttavia il mio rifiuto nei confronti della tecnologia non è totale (io stesso ne faccio uso quotidianamente e felicemente); ciò che non tollero e di cui ho sinceramente paura è il modificarsi del nostro rapporto con essa, il nostro avere perso il controllo della situazione, per cui non si limita a servirci ma gradualmente ci sostituisce come esseri specificatamente umani e come esseri naturali.
Queste considerazioni sembrerebbero avermi portato lontano dal tema centrale dell’intelligenza artificiale nel doppiaggio; evidentemente non è così, ciò costituisce uno dei tanti aspetti di una realtà più vasta: la perversione avvenuta nel rapporto fra la civiltà contemporanea e la tecnologia. Tuttavia Adan Zzywwurath mi ha rassicurato: egli stesso partecipa nel ruolo di giurato a un concorso per doppiatori; dunque malgrado, come per tante altre cose, l’avvenire si presenti oscuro, in qualche modo la nobile arte del doppiaggio continuerà a esistere.
Sono esistiti e continuano a esistere gli iconoclasti nemici del doppiaggio, mi piace chiamarli iconoclasti perché sono contro qualcosa di bello e legittimo. In altri termini mi appaiono come nemici della felicità, forse anche della bellezza. Può sembrare assurdo che un attore americano o inglese, tedesco, francese, russo, giapponese o altro possa parlare sullo schermo in perfetto italiano, un italiano rigoroso, elegante, ricco anche di espressioni desuete nella lingua di ogni giorno, magari con una lievissima inflessione derivante dall’ appartenenza regionale del doppiatore (un esempio significativo è quello di un grande doppiatore del passato come Mario Pisu, la cui vaghissima cantilena emiliana contribuiva al fascino della sua voce calda, bella, elegante).
L’italiano del doppiaggio, parlo dell’ italiano, perché questa è la mia esperienza come spettatore e come ascoltatore e perché la tradizione di questo procedimento nel nostro paese dagli anni 30 ad oggi è di altissimo livello) come peraltro quello delle traduzioni è quasi un’altra lingua; qualcuno , coniando orribili neologismi lo ha chiamato “doppiaggese“ o “filmese” nei quali si avverte l’intenzione sottilmente denigratoria, volgarmente ironica.
Ciò che dà fastidio ai critici del doppiaggio è la presunta scomparsa nell’uniformità elegante, indubbiamente astratta, un po’ irreale del doppiaggio italiano, delle sfumature linguistiche derivanti dall’appartenenza sociale e culturale dei personaggi doppiati. In termini più semplici loro dicono: “lo scaricatore di porto parla come l’avvocato“; e con questo? Ho sentito lavoratori parlare indifferentemente in dialetto romanesco o in perfetto italiano (peraltro anch’io lo faccio); inoltre i nostri straordinari doppiatori hanno sempre cercato, a mio avviso con successo, di modulare le loro bellissime voci non solo sul carattere, l’età, lo stato d’animo dei personaggi doppiati, ma anche sulle caratteristiche sociali e culturali di questi. I nemici del doppiaggio non hanno compreso questa fondamentale verità: come ogni forma di espressione artistica, così il Cinema cui serve il doppiaggio non ha assolutamente il dovere di essere realistico; quando sia eseguito da bravi professionisti che sono essenzialmente attori, è una deformazione della realtà, un’invenzione necessariamente fantastica perché l’arte è sempre e comunque una deformazione della realtà.
Ho provato talvolta a vedere i film in lingua originale, con le didascalie. Nonostante gli attori fossero bravi, belle le loro voci, bella la storia, ho avuto un’impressione di freddezza, di artificiosità, non sono entrato nel film. Gli amici che, malgrado conoscano alla perfezione ad esempio l’inglese, condividono la mia predilezione per il Cinema doppiato, hanno avuto la mia stessa esperienza. Quando noi vediamo un film in lingua originale, per quanto noi possiamo conoscere alla perfezione la lingua con la quale parlano i personaggi, le loro parole, le loro espressioni non ci raggiungono immediatamente, non entrano direttamente nella nostra mente, nella nostra immaginazione, nel nostro cuore; ciò che avviene è un lavoro per quanto veloce di traduzione; dunque viene a crearsi un filtro e manca l’emozione che solo il Cinema può dare. Nel nostro inconscio le cose sono le parole, i suoni della nostra lingua madre; ecco perché è tanto più bello un film eccellentemente doppiato.
Rimproverano al doppiaggio di essere stato e di continuare ad essere un colpevole residuo del fascismo; la storia spesso produce paradossi e la storia del doppiaggio italiano è lunga e complessa. Con l’avvento nel 1927 del cinema sonoro l’industria cinematografica americana immediatamente ebbe difficoltà nel distribuire i film sonori nei paesi europei; per ragioni di ordine tecnico e per ragioni politiche. Le sale cinematografiche non erano attrezzate per la proiezione di film sonori e i governi di alcuni paesi, significativamente il governo fascista in Italia, non gradivano l’ingresso nel loro territorio di film provenienti dall’estero, perché parlati in una lingua diversa da quella nazionale idolatrata e protetta contro contaminazioni linguistiche straniere; ma anche per i contenuti. I film americani, inglesi o francesi parlavano di una società diversa, con valori e ideali in contrasto con ciò che il governo del nostro paese riteneva essere giusto e vero; in questa fase i film sonori di importazione venivano ammutoliti, divenivano di fatto dei film muti, in cui le immagini erano accompagnate da didascalie in italiano. Evidentemente per ragioni di ordine estetico, per la piena godibilità del film e di ordine pratico non era possibile continuare a proiettare i film in queste condizioni; vi fu una fase intermedia in cui le case di produzione americane girarono i film nelle diverse lingue dei paesi cui erano destinati, costringendo gli attori a un lavoro faticosissimo di dizione.
Questo procedimento risultò essere estremamente complicato, prolisso, dispendioso, fornendo peraltro un risultato qualitativamente mediocre, data l’imperfetta pronuncia degli attori sullo schermo, avvertita con fastidio dal pubblico e dalla critica. Nel 1929 la “Fox film” con la collaborazione dell’attore italo-americano Augusto Galli realizzò in California il primo esperimento di doppiaggio italiano per il film Maritati a Hollywood. Malgrado il risultato dal punto di vista qualitativo non fosse straordinario, il procedimento aveva avuto di fatto successo, si andò rapidamente perfezionando e fu adottato gradualmente da tutte le maggiori case di produzione americane; queste aprirono negli Stati Uniti stabilimenti di doppiaggio, dove furono impiegati attori italo-americani o italiani emigrati in America. Di qui l’accento spiccatamente anglosassone dei film americani distribuiti in Italia negli anni 30 e 40, lievemente bizzarro, ma tutt’altro che sgradevole. Tuttavia il governo fascista continuava ad essere ostile all’ingresso dei film sonori stranieri nel nostro paese, creando ostacoli di ogni genere; al culmine di questo ostracismo ideologico nei confronti del cinema straniero nel 1933 un decreto regio avrebbe stabilito che i film doppiati fuori dai confini del regno non potevano essere proiettati nel territorio nazionale; venivano a esistere le premesse per la nascita del doppiaggio italiano quale noi lo conosciamo e amiamo.
La “Cines-Pittaluga”, che allora dominava il monopolio della produzione e distribuzione cinematografica in Italia, nell’estate del 1932 aprì a Roma il primo stabilimento di doppiaggio italiano. (Mi piace ricordare che i miei genitori erano entrambi impiegati nel settore distributivo della Pittaluga e qui ebbe inizio la loro storia d’amore). I doppiatori erano naturalmente attori italiani; uno dei primi film doppiati in Italia da attori italiani fu A me la libertà! (À nous la liberté) di René Clair. Sono riconoscibili la bellissima voce di Gino Cervi e quella caratteristica di Corrado Racca; questi fanno parte della folla sterminata dei grandi doppiatori italiani (Indimenticabili sono il doppiaggio di Gino Cervi su James Stewart in Harvey e quello di Corrado Racca su Henry Travers: Clarence, l’angelo in La vita è meravigliosa). Alla Cines–Pittaluga si aggiunsero altri stabilimenti di doppiaggio quali la “Fotovox”, l’ “Italia acustica” e la “Fono Roma”: questa divenne la più importante casa di doppiaggio in Italia, quando la 20thCentury Fox, la Paramount e la Warner Bros le avevano affidato l’edizione italiana dei loro film. La Metro-Goldwyn-Mayer a sua volta aprì uno stabilimento di doppiaggio a Roma.
Ho affermato che il doppiaggio italiano effettuato da attori anglofoni non era nel risultato sgradevole; esemplare in questo senso è Prigionieri del passato (Random Harvest), bellissimo film sentimentale del 1942, diretto da Mervyn LeRoy, con Ronald Colman e Greer Garson protagonisti. La musicalità spiccatamente anglosassone nelle voci dei personaggi è in qualche modo affascinante e contribuisce all’atmosfera inglese e remota del film. Tuttavia la qualità e il fascino del doppiaggio effettuato da grandi o comunque bravissimi attori italiani erano straordinari, decisamente superiori; da qui ebbe origine la collaborazione fra le major americane e gli stabilimenti di doppiaggio italiani Malgrado tutto nasceva in quegli anni la grande tradizione del doppiaggio italiano, all’ombra di una dittatura odiosa, da un complicato intreccio di motivazioni tecniche, economiche, estetiche, politiche; ho detto malgrado tutto perché forse il governo fascista lo aveva voluto o incoraggiato per sottrarre il monopolio agli Americani, per incoraggiare gli Italiani ad andare al cinema o per sostenere la purezza e la superiorità della lingua italiana. Ciononostante il doppiaggio italiano ha contribuito allo sviluppo della cultura e della democrazia nel nostro paese; ha consentito a molti Italiani analfabeti di vedere i film stranieri e di capirli, di entrare in contatto con la società e la cultura degli altri paesi. Dal punto di vista estetico è stato uno splendido risultato, una magia insostituibile e irrinunciabile. Spesso la storia produce paradossi.
Peraltro il “Centro Sperimentale di Cinematografia” e gli studi di Cinecittà sono nati fra il 1935 e il 1937 entrambi fortemente voluti da Mussolini. La finalità era quella di imporre il prestigio dell’Italia attraverso lo sviluppo e la diffusione del cinema italiano; l’esito del progetto è andato ben oltre i confini storici della fase politica e sociale nella quale esso è nato. Il Centro Sperimentale di Cinematografia ha formato dagli anni 30 ad oggi intere generazioni di professionisti del cinema, registi, sceneggiatori, attori, tecnici; negli studi di Cinecittà hanno girato i loro film i maggiori registi italiani. Sono cose belle, essenziali a una società e a una cultura democratiche. Identico è il destino del doppiaggio italiano; ecco perché è inesatto o comunque irrilevante definirlo un residuo del fascismo.
A questo punto qualcuno potrà osservare che sono inesorabilmente legato al passato ed è vero; il mio secolo è il 900, non solo perché sono nato nel 1951, proprio al centro di questa fase temporale, nel suo cuore pulsante, come altri fortunati (ci chiamano boomer, utilizzando una volta tanto fra tanti orribili neologismi una parola simpatica che sta a significare i figli del boom economico e demografico); io lo amo: certo un secolo discutibile, con il suo bagaglio di due spaventose guerre mondiali, diverse rivoluzioni, innumerevoli tragedie collettive, ma anche generoso di cose belle: letteratura, musica, cinema; cosa sarebbe stato il Cinema per noi italiani senza le Bellissime Voci che non hanno semplicemente tradotto parole, ma hanno regalato un‘anima agli attori ai personaggi, trasferendoli nel nostro inconscio, facendo di loro degli amici, ma anche dei nemici, rendendoli comunque reali.
[in copertina: Un uomo tranquillo (The Quiet Man, di John Ford, 1952), con – riconoscibili, da sinistra a destra nella foto – Victor Mc Laglen (doppiato in Italia da Mario Besesti), Ward Bond (doppiato da Cesare Polacco), e John Wayne, doppiato dalla sua inseparabile e imperitura “voce italiana”: Emilio Cigoli. “Talvolta”, ha scritto Luigi Voltaggio, “ho immaginato che Dio potrebbe parlare con la voce di Emilio Cigoli”].