James G. Frazer dedica almeno tre pagine del favoloso Ramo d’oro a tratteggiare la figura del “Jalno”, e alla sua sfida a dadi col “Re degli anni”, che ha in palio il dominio di Lhasa, la capitale del Tibet.
Laggiù, ancora ai tempi dell’etnologo britannico, era norma che, all’inizio dell’anno, le prerogative del Gran Lama e i poteri del governo venissero banditi all’asta. Ogni monastero gareggiava contro tutti gli altri: quello che vinceva, esponendosi per la cifra più alta, eleggeva al suo interno un religioso che si assumeva il compito di governare i tibetani per un breve lasso di tempo – per la precisione, ventitre giorni. Questo monaco prendeva il nome tradizionale di “Jalno”.
Nella più collaudata impunità, il Jalno da quel momento angariava il popolo, imponendogli anche tasse inique e iperbolici balzelli.
Per reazione, mercanti, contadini e lavoratori salariati, immancabilmente fuggivano dalla capitale, e restavano a bivaccare fuori dalle porte cittadine, in attesa che tutto tornasse nella normalità.
Ma la successione rituale non si concludeva affatto con lo scadere dei ventitré giorni.
È tradizione che, meno di un mese dopo aver deposto il comando, il Jalno torni improvvisamente al potere.
A questo punto i monaci e gli alti sacerdoti si radunano per designare il suo antagonista, che a Lhasa viene chiamato “il Re degli anni”.
Il prescelto è un vagabondo scurrile, uno schnorrer locale, che approfittando del titolo razzia ogni giorno i banchi del mercato. Nessuno però lo invidia: il “Re degli anni” infatti è il capro espiatorio destinato a portar via la cattiva sorte e i peccati della città. Mascherato, col volto tinto mezzo di bianco, mezzo di nero, questo pagliaccio affronta il Jalno e, rozzo e ignorante com’è, ha l’improntitudine di battibeccare con lui contestando le più elementari Verità religiose.
Il Re degli anni provoca il monaco dicendo, ad esempio: “Quel che noi percepiamo coi cinque sensi non è illusione”. Il Jalno allora s’indigna (o finge di indignarsi) e lo sfida a una gara di dadi.
Ogni questione dottrinaria sarà risolta col responso della sorte. Chi perde, tra i due, sarà bandito da Lhasa. Tutta la città accorre: anche se l’esito del duello è prevedibile.
Lo scontro “teologico” è infatti truccato.
“La fortuna […] favorisce invariabilmente il Jalno, che tira i dadi sempre con successo”, rivela Frazer, “perché i dadi del Jalno hanno sei punti da tutte le parti e quelli del suo avversario non hanno altro che un sol punto su tutti i lati”.
Perdendo a ogni lancio, il Re degli anni finisce per impaurirsi e fugge, “fugge su un cavallo bianco, con un cane bianco, un uccello bianco, del sale, ecc., procuratigli dal governo”.
Catturato infine dal popolo furente, viene rinchiuso dapprima “nella grande Sala degli Orrori nel monastero di Samias, circondato da mostruose e spaventose immagini di demoni e da pelli di serpenti e bestie selvagge”; quindi, viene esiliato sulle montagne di Chetang, dove vive il resto dell’anno dentro un fosso.
“Se muore prima che spiri il termine se ne trae buon augurio; ma se sopravvive deve tornare a Lhasa per far di nuovo l’anno seguente la parte del capro espiatorio”.
Intanto, il nuovo malgoverno del Jalno è durato appena dieci giorni, e dopo questo termine il monaco restituisce il potere alle Autorità legittime e al Gran Lama.
Consiglio a tutti di leggere l’intera storia, raccontata meglio, in: Frazer, Il Ramo d’Oro, LVII, 3.
[in copertina: I giocatori di Dadi, di Georges de La Tour (dettaglio)]