I- Marco Aurelio Antonino Augusto, nato come Sesto Vario Avito Bassiano, noto a tutti, però, col nome di Eliogabalo (o Elagabalo), impostore, preteso figlio naturale del perfido Caracalla, resse l’impero di Roma dal 218 al 222, e fu anche, a suo modo, inventore e patrocinatore delle arti. I campi nei quali pretendeva di eccellere si possono restringere a questi tre: architettura, lussuria senza freni, culinaria.
Come architetto ideò, pare, una “Torre del Suicidio”, di cui non è rimasta traccia, neppure come rovina.
Eliogabalo, racconta Montaigne, in mezzo ai più lascivi piaceri, progettava “di darsi la morte elegantemente se il caso ve lo spingesse; e affinché la sua morte non smentisse il resto della sua vita, aveva fatto appositamente costruire una torre sontuosa, la base e la parte anteriore della quale erano rivestite di assi ornate d’oro e di gemme, per gettarsi giù; e aveva anche fatto fare delle corde d’oro e di seta cremisi per strangolarsi; e forgiare una spada d’oro per trafiggersi; e teneva veleno in vasi di smeraldo e di topazio per avvelenarsi, secondo che gli venisse voglia di scegliere fra tutti questi modi di morire”.
Montaigne dà del codardo a questo despota lascivo, perché la “mollezza dei preparativi”, lascia credere che, al momento cruciale, sarebbe stato colto dalla “tremarella”.
La Storia, non ha mai smentito un tale giudizio severo. Eliogabalo non poté mai dar prova, da stoico, del suo coraggio suicida: non perché morisse, come l’asino di Buridano, nell’imbarazzo della scelta delle armi per sopprimersi, ma perché fu ovviamente “massacrato dai pretoriani, indignati” per il suo comportamento. Senza decoro, senza compassione, il suo cadavere, come riporta Gibbon, “venne mutilato, trascinato per le vie di Roma e gettato nel Tevere”.
Era per noia, se l’osceno imperatore impreziosiva i suoi strumenti di martirio, baloccandosi con la prospettiva, sempre rinviata, di darsi prima o poi la morte.
Consumato ogni libertinaggio possibile con l’altro sesso, annoiato dalle orge muliebri, finalmente “transgender”, prese abiti e costumanze femminili, e preferendo – come dice il rigido Gibbon – “la conocchia allo scettro”, si fece chiamare senza perifrasi o ipocrisie “Imperatrice” dai suoi sudditi.
In queste inaudite vesti, convocati alcuni romani che vantavano le più ciclopiche appendici virili della città, tra loro si scelse pubblicamente un marito. Il prescelto fu, pare, un certo Zotico – nome che è tuttora famoso in Italia nella sua versione aggettivata o dilatata – , ma poi, caduto costui in disgrazia la notte stessa delle nozze, l’imperatore/imperatrice gli preferì un certo Ierocle, e lo insediò, sul trono, al suo fianco.
Raccomandati dall’enormitate membrorum (affermazione della Storia Augusta), si distinguevano tra i suoi prediletti anche un ballerino, un cocchiere e un barbiere: tutti costoro, ebbero incarichi ministeriali di rilievo e divennero prefetti, secondo una graduatoria il cui senso riposto solo Eliogabalo conosceva appieno.
Abbandonatosi poi con dovizia a ogni sfrenatezza gastronomica, presto se ne ritrovò sazio, esausto e nauseato. Bandì quindi una gara tra cuochi, anche improvvisati, perché rendessero più appetitose le sue vivande; ma chi gli proponeva nuovi menu e nuove gozzoviglie culinarie, molto rischiava, in quanto il despota non perdonava mai una delusione patita: “La scoperta d’un nuovo intingolo” – riferisce Gibbon – “era ricompensata generosamente, ma se esso non piaceva, l’inventore era condannato a non mangiare altro fino a che non ne avesse trovato uno più gradito al palato dell’Imperatore”.
Non sembra però una punizione così crudele: di solito si imbandiscono alla mensa dei potenti i manicaretti più costosi, prelibati e ricercati. Certo l’imposizione nuoce a una dieta bilanciata, ma questa fu scoperta solo nel secolo Ventesimo.
Fu anche, Eliogabalo, ovviamente, assassino. A volte, omicida sbadato: talmente raffinato da stupirsi dell’esito fatale, colposo, dei suoi stessi crimini.
Durante i suoi festini, questo dissoluto tiranno di Roma, volendo superare per splendore ogni altro monarca del passato, faceva cadere sui suoi invitati, dalla volta della sua sala faraonica, a pioggia, a grandine, una tale quantità di fiori interi o quintali di petali e altre profumate regalie che gli ospiti spesso rimanevano stecchiti sotto quella coltre, impediti nel respiro e soffocati da tanta munificenza.
II- C’è un racconto di Ambrose Bierce – scrittore straordinario, che venne al mondo circa sedici secoli dopo Eliogabalo –, nel quale la divina Provvidenza si comporta proprio come l’imperatore durante le sue orge. Si intitola: Storiellina (“The Little Story”, 1874). La consiglio: è un capolavoro dell’Umorismo Nero.
Si tratta d’una variazione “combinatoria” della fiaba della Piccola Fiammiferaia (Andersen, 1848), allo scopo d’introdurvi un paradossale “lieto fine”.
Un’orfanella, la notte di San Silvestro, sola, debole, affamata, esposta a pioggia e gelo – mentre tutti gli altri, satolli e sganasciati, festeggiano l’anno nuovo –, esprime un desiderio: coprirsi contro il freddo, sfamarsi, essere in qualche modo felice anche lei.
È mezzanotte. L’orfanella guarda ansiosa il cielo e…: viene esaudita. Dalle nuvole, precipita giù, ai suoi piedi, una torta di mirtilli. “Mentre era intenta a raccogliere la torta venne giù una pagnottina con vitello che quasi le portò via un orecchio”; poi arrivò una pagnotta intera, e un prosciutto enorme le “cascò dritto dritto sulle dita dei piedi”. “Quindi ci fu una tregua – non venne giù nient’altro, salvo che pesce secco, budini freddi e biancheria di flanella”; ma poi, ecco che un “quarto sano di bue piombò in un momento terrificante sulla testolina della piccola orfana”. Questa pioggia miracolosa continua senza pietà. “Lenzuola e coperte, scarpe, barilotti di burro, forme monumentali di formaggio, cordate intere di cipolle, quantità inverosimili di marmellata sfusa, fusti di ostriche, pollame titanico, casse e casse di terraglia, stufe e fornelli d’ogni sorta e tonnellate di carbone piovvero in ampie cateratte da un cielo uberrimo, andandosi quindi ad accumulare sull’infante per una profondità di sei o sette metri. Ci vollero più di due ore prima che tornasse il sereno ed erano già le tre e mezzo antimeridiane quando un quintale di zucchero andò a colpire l’angolo tra Clay e Kranney Street con una tale veemenza che tutta la penisola venne scossa come da un terremoto e tutti gli orologi della città si fermarono”.
Alla fine i resti miseri dell’orfanella vengono portati all’obitorio, e il coroner, appena li vede, si spazientisce con il necroforo: “Oh, senta, se ne vada, per favore, c’è stato qui uno ben tre volte ieri che ha cercato di vendermi una carta geografica precisa a questa” [Racconti Neri].
Siamo già al “Cartone Animato”: e infatti Tex Avery, emulo ignaro di Eliogabalo e Ambrose Bierce, ricorrerà anche lui a un’irrefrenabile pioggia d’oggetti (sempre più grandi) per concludere il formidabile Bad Luck Blackie (1949), un cartoon venerato dai Surrealisti.