Nel 1831, al principio di luglio, durante un terremoto che scosse la Sicilia, emerse dal mare, tra Sciacca e Pantelleria, un’Isola che nessuno aveva mai visto prima. I marinai e i pescatori siciliani che l’incrociarono, sorpresi da quella apparizione, la chiamarono “Nerita”. La nascita improvvisa dell’isolotto, che aveva una superficie di circa quattro chilometri quadrati, suscitò la meraviglia degli scienziati e dei geologi: ne parlò, nell’Accademia di Parigi, anche il celebre von Humboldt. Presto si comprese che Nerita era stata creata da un’eruzione vulcanica sottomarina. Ma subito l’Isola divenne anche meta della brama di possesso delle potenze militari.
Già a fine luglio, un capitano inglese, approdandovi solo e senza testimoni, consacrò Nerita, fino allora inviolata, alla corona britannica. L’11 agosto un geologo inviato dal re delle due Sicilie, Carlo Gemellaro, la visitò e la chiamò “Ferdinandea”, in omaggio al suo sovrano. Il 17 agosto 1831, Ferdinando II di Borbone rivendicò il terreno emerso come parte del regno delle Due Sicilie, conferendole ufficialmente il nome di “Isola Ferdinandea”. Ma il 24 agosto, ignorando quell’atto, su quella cima di vulcano sventolò di nuovo il vessillo britannico, postovi da un capitano di nome Jenhouse, il quale battezzò l’Isola: “Graham”,
Gli interessi, anche mercantili, legati a quel possesso, erano notevoli e concreti, e la Francia non esitò a rispondere all’invadenza del nemico. Il geologo Constant Prévost s’imbarcò a Tolone sul brick “La Fléche” il 16 settembre 1831, e il 25 dello stesso mese raggiunse la neonata Ferdinandea. L’Isola aveva l’aspetto di “due poggi uniti da una bassa spiaggia”: nel mezzo delle due alture, friabili e sabbiose, un laghetto d’acque albule sprigionava un denso fumo bianco, segno che l’attività eruttiva stava riprendendo. Il 29 lo scienziato guadagnò la riva e poté passeggiare tra gli scogli; impresa impervia, perché la terra sembrava bruciare, sfiorando il suo calore gli 85 gradi centigradi, e ceneri, lapilli e scorie cedevano sotto i suoi passi e lo costringevano a affondare. Ignorando le difficoltà di quel cammino così insidioso, la spedizione scalò il poggio più alto (che non arrivava ai 70 metri) e sopra quello issò il tricolore francese. Da quel momento, per Parigi, Ferdinandea prese il nome di “Julia”.
C’erano ormai tutti i presupposti per una crisi internazionale.
Spazzata dai venti e dai marosi, l’Isola perdeva ogni giorno consistenza. Una “Descrizione” di Ferdinandea contemporanea ai fatti, ci ragguaglia che essa, a due mesi appena dalla sua comparsa, si era già ridotta a un settimo della sua iniziale circonferenza, e a un quarto della sua originaria superficie.
Nonostante la scarsa appetibilità e la stessa evanescenza di quel territorio, le potenze marittime mondiali erano quasi pronte a scambiarsi cannonate per annetterla ai loro domini. Come un bianco, enorme, cetaceo melvilliano arenato su una spiaggia, che agonizzando sfiatava fumo e zolfo, l’Isola mostrava i segni lasciati dai suoi spietati e avidi ramponieri, che avevano affondato sul suo corpo, a mo’ di arpioni, le punte delle loro rapaci e antagonistiche bandiere.
Mentre le capitali erano in fermento, Ferdinandea sparì.
Tra il novembre e il dicembre del 1831, l’Isola si inabissò e si adagiò sull’esteso banco di roccia lavica sottomarina che l’aveva partorita. Forse: con disgusto.
La storia ha valore di parabola. A riprova che anche la Natura si esprime con parabole, ma ha un solo modo di raccontarle: renderle “reali”.
In modo che – chi ha orecchi e sensi capaci di intenderle, intenda.