Il 31 luglio 1703, lo scrittore, poeta e pamphlettista Daniel De Foe fu esposto in una gogna al pubblico ludibrio nella piazza del Temple Bar, alle porte di Londra. Fu l’ultimo giorno in cui gli venne inflitta questa condanna itinerante: il 29 era stato affisso nella piazza della Borsa, il 30 a Chipside. Tutta la città, nell’intenzione dei maggiorenti del Paese, doveva assistere alla sua punizione. Inaspettatamente, a coprirsi di ridicolo non fu lui, ma i governanti che avevano cercato di umiliarlo con questa forma di “piccola crocifissione”. I londinesi parteggiarono apertamente per De Foe; le popolane gli lanciarono dei fiori, invece che le solite immondizie destinate a chi è incatenato sulla gogna, gli uomini gli si accalcarono intorno scolando in suo onore enormi boccali di birra. Tra gli spettatori, andò a ruba un volantino, un “Inno” composto da De Foe, nel quale sarcasticamente si benediceva quella infernale e geroglifica “macchina di Stato” nata per stritolare la Fantasia: l’alto “sgabello” dal quale lui, innocente, vedeva aggirarsi liberi i veri furfanti.
Quale reato aveva commesso il futuro autore di Robinson Crusoe? Il “crimine di Satira”.
Aveva scritto e fatto circolare un libello, La via più breve coi Dissidenti, nel quale sosteneva in modo “serio” d’aver trovato finalmente la soluzione a una spinosa questione di Fede religiosa. Proponeva quindi che tutti coloro che non accettavano i riti e i dogmi della Chiesa Anglicana, venissero appesi a una forca o, male che vada, marcissero per sempre in galera. Tra i Dissenzienti, l’alto onore d’essere crocefissi veniva riservato ai gesuiti.
Naturalmente, il libro fu bruciato nelle piazze, e De Foe dovette scappare per sottrarsi alla prigione. Ironia della sorte, era, lui stesso, un presbiteriano dissenziente, e ora gli capitava esattamente quanto aveva preannunciato a tutti gli altri.
Le autorità allora misero su di lui una taglia – condanna peggiore della gogna, perché a quei tempi come ai nostri, niente ostacolava il richiamo, il fascino, del denaro e del profitto, specialmente se ottenuto con poca o nessuna fatica.
Perfino la Gazzetta Londinese, si premurò – lo ricorda James Joyce – di far circolare un suo minuzioso “identikit”, in modo che l’autore del pamphlet irriverente non sfuggisse alla cattura:
“È un uomo magro, attempato, forse quarantenne, di carnagione scura, capelli castani – ma porta la parrucca – naso adunco, mento acuto, occhi grigi, con un grande neo nelle vicinanze della bocca. Nato a Londra, per molti anni mediatore in maglierie a Cornhill, ora proprietario di una fabbrica di mattoni e laterizi a Tilbury, nella contea di Essex”.
Non c’era solo la descrizione del “satirico”, ma anche l’indicazione dei luoghi dove andarlo a cercare. E infatti, entro un mese, Daniel De Foe si ritrovò in prigione, a Newgate. E lì scrisse, o perfezionò, il suo celebre “Inno alla Gogna”.
Perché tanto accanimento, da parte dello Stato? Joyce lo spiega.
“La satira suscitò immenso scalpore, ingannando, sulle prime, gli stessi Ministri i quali, solo dopo averne lodato la sincerità e la saggezza dell’ispirazione, si accorsero che si trattava di una solenne canzonatura”. In breve, non si vergognarono affatto d’aver ceduto alla prospettiva d’un benefico e provvidenziale sterminio dei loro oppositori, ma li irritò che quello che in segreto si auguravano, venisse messo alla berlina da un commerciante di mattoni e laterizi.
Nonostante avesse leso la scarsa fantasia dei suoi persecutori, a De Foe fu risparmiato l’estremo oltraggio solitamente riservato ai felloni “infami” come lui. “Per un atto di clemenza sovrana, le orecchie non gli furono tagliate”.