I- Il capolavoro gastronomico dei Romani antichi fu probabilmente il famoso “Cinghiale alla Troiana” (se ne trova un cenno vago in Plinio): “ossia una portata formata di diversi animali, tutti contenuti in uno solo, e al cui centro sta un’oliva farcita”.
Il “Róti à l’Impératrice” d’epoca napoleonica gli somigliava molto, e Philomneste, nel suo Livre des Singularités, ne ripropone la ricetta, giudicandolo il più “succulento” tra tutti gli arrosti cucinabili al forno:
«Prendete un’oliva, la più bella, la più carnosa che potrete trovare; toglietele il nocciolo e sostituitelo con un filetto d’acciuga.
In seguito, mettete questo frutto così riempito in un’allodola.
Questa allodola ben infarcita dovrà entrare in una quaglia bella grassa: la quaglia va quindi introdotta in una pernice, e la pernice in un fagiano.
Questo a sua volta, sparirà all’interno d’un corpulento tacchino, il quale troverà rifugio infine dentro un bel porcello da latte;
un fuoco brillante non tarderà a dorare la sua cotenna, combinando i gusti differenti di queste carni, incastonate l’una dentro l’altra.
Tirate via il tutto dallo spiedo, servite, e siate sicuri che niente supererà la sensazione deliziosa, per l’odorato, per il gusto, che vi farà provare questo ammirevole piatto, del quale tuttavia la parte più preziosa resta l’oliva, divenuta il centro della quintessenza di tutti gli ingredienti che la contornano».
Il vero buongustaio, quindi, fin dai tempi di Plinio e d’Aulo Gellio, era il neghittoso che di tutto l’arrosto sbocconcellava solo l’oliva. Ma l’ancor più autentico intenditore, doveva essere chi s’appagava di lambire con la lingua solo il rimasuglio d’acciuga evaporato nell’interno di quel frutto: il “tesoro” nascosto dell’arrosto.
II- In un giorno come questo, non è possibile dimenticare che la più temuta, aborrita, meno agognata delle “cotture al forno” è quella che attende i dannati nell’Inferno.
«Un principe chiese un giorno a un sufi: “Fratello, come trascorri la tua esistenza?”
Quegli rispose: “Io sono imprigionato nella fornace del mondo, con le labbra riarse e il ventre bagnato, e non ho spezzato un solo pane nel timore che laggiù mi spezzino il collo!”» [‘Attar, Il Verbo degli Uccelli, II, 13].
Anche la santa dei sufi, Rabi’a, era “piena di grande timore. Quando udiva ricordare il fuoco, sveniva”, essendo “il fuoco” quello che solitamente ustiona i peccatori nelle bolge.
Narra il Livre des Bizzarres che l’eremita cristiano Padre Athanasio “non mangiava mai pasti cotti, perché le fiamme della cucina gli ricordavano in modo insopportabile quelle dell’Inferno”.
Tawus era ossessionato dalla stessa terrificante prospettiva: “se vedeva il fuoco, era come se perdesse la ragione; una volta vide un rosticciere cavare dal forno una testa di pecora e svenne”.
Di Hasan di Bassora, infine, si diceva che fosse “dominato” dal terrore: “come se l’Inferno fosse stato creato unicamente per lui”.
Il vero inferno può essere il mondo, quando si ha paura dell’Inferno.