I- Quando il Destino – inteso come Potenza cosmica – diventò, da tragico, “borghese”, fu evidente che, perseguendo i suoi disegni, presagiva e favoriva le stampe popolari, il giornalismo d’accatto, il sensazionalismo. Si abbassò fino al sospetto d’essersi trasformato in pura “coazione a ripetere”, o peggio: in coincidenza.
La sera del 10 ottobre dell’anno 1800, la polizia parigina sventò un attentato contro Napoleone Bonaparte. La vicenda, controversa, passò alla storia come “complotto dell’Opéra”. I congiurati, secondo la versione di Fouché, attendevano il primo console all’uscita del Teatro, per ucciderlo. Ma i gendarmi li fermarono, appena in tempo. Tra i primi arrestati, compariva lo scultore Giuseppe Ceracchi, un rivoluzionario che si era distinto come fondatore della prima repubblica romana. Era stato un fanatico bonapartista. Fu ghigliottinato.
Dopo poche settimane, il 24 dicembre (a poco più di un anno dal suo colpo di stato del 18 brumaio 1799), Napoleone fu oggetto di un nuovo attentato, stavolta a opera di realisti bretoni. Mentre il dittatore insieme a Giuseppina si stava dirigendo all’Opéra, la “Macchina Infernale” – un barile ricolmo di polvere esplosiva e pezzi e scorie di metallo – esplose nelle vicinanze della sua carrozza, all’altezza di rue Saint-Nicaise. Morirono cinque persone, ma Napoleone e la moglie si salvarono. Bonaparte fece in tempo ad assistere allo spettacolo (quella sera si rappresentavano Gli Orazi) e fu accolto, al suo ingresso in teatro, da un fragoroso e persistente applauso della folla. I biografi dissero, poi, che durante il tragitto si era assopito, e aveva avuto un incubo definibile “profetico”, in qualche modo.
Passò più di mezzo secolo, e un nuovo – e se possibile ancor più abusivo –, imperatore dei Francesi, Napoleone III, non volle essere da meno dell’illustre predecessore, in fatto di attentati e segni premonitori. Sogni, prodigi, preveggenze, furono però sostituiti da una segnaletica raccogliticcia e vaga, come se il Fato, impoveritosi nel frattempo a spia dei gendarmi, si presentasse con una “soffiata”, piuttosto che con la severità stentorea dell’Oracolo, portavoce di una forza ineluttabile. Tanto che fu facile, per chi muoveva fili e fila dell’opinione pubblica, calare questi segni a sostegno del re-fantoccio, come a rimpagliarlo, gonfiarlo, strillonarlo e strombazzarlo in quanto “uomo del destino”. Invece che una mano di Tarocchi, un giro di briscola con carte da bistrot.
La sera del 14 gennaio 1858, Napoleone III subì un attentato. A compierlo furono alcuni patrioti italiani, indipendentisti delusi dai suoi voltafaccia. Quella mattina il tiranno aveva a lungo conversato con un suo ospite, il duca Ernesto di Sassonia: e uno degli argomenti più trattati era stato proprio il regicidio. Napoleone il piccolo giudicava che un assalto suicida all’arma bianca era la migliore risorsa, se si voleva raggiungere lo scopo, e che invece utilizzando bombe, o pistole, allo scopo di riservarsi una codarda via di fuga, si rischiava l’insuccesso.
Dopo poche ore, Felice Orsini, Antonio Gomez e il conte Carlo Camillo di Rudio cercarono vanamente di ucciderlo utilizzando l’esplosivo. Attesero Napoleone III e sua moglie, imperatrice Eugenia, di fronte all’Opera di Parigi, e scagliarono tre bombe sotto la loro carrozza: ci fu una strage di cavalli; otto passanti, feriti, morirono nei giorni successivi. Incolumi, appena graffiati e insanguinati, i regnanti guadagnarono subito il loro palco nel Teatro, e assistettero all’intera rappresentazione. Bene: all’Opéra, quella sera si rappresentava, anche in forma di balletto, l’assassinio del re Gustavo III di Svezia. L’étoile era un’italiana, la ballerina Rosati.
Felice Orsini, arrestato, fu ghigliottinato. Karl Marx lo definì: “martire immortale”.
II- Fin qui il racconto “popolare” della vicenda. Ma ci sono fatti collaterali, che esulano dal giornalismo, sui quali vorrei soffermarmi.
Cinque anni dopo, nel 1863, altri quattro italiani “pensarono di assassinare Napoleone III col lancio di bombe sotto la vettura imperiale una sera che si fosse recato all’Opera“. Si intravede nel disegno di questi ultimi patrioti non solo la volontà di vendicare l’infelice Orsini, giungendo là dove non era arrivato, ma di colpire il tiranno nel modo più clamoroso e, per lui, spaventoso: materializzando le sue paure con un Eterno Ritorno dello stesso agguato.
É evidente infatti dopo i fatti del gennaio 1858, l’imperatore si sarebbe sempre avvicinato al Teatro dell’Opera in uno stato di tensione, col ricordo indelebile, seppure inconscio, del lampo, dello scoppio che l’aveva ferito. Ma, allo stesso tempo, la scarsa probabilità che un simile attentato si ripetesse in tutti i dettagli (e anche le indagini preventive e la vigilanza della polizia in quei dintorni), sembravano metterlo al sicuro. Invece gli Italiani cercarono di ucciderlo esattamente nello stesso modo, per fargli, se possibile, ancora più male: colpendolo oltre che nel fisico, nell’Immaginazione.
C’è un’altra evenienza che lascia ancora più stupiti, e ci fa interrogare sulla “coazione a ripetere” che sembra aleggiare attorno all’attentato. Bisogna ricordare che lo stesso Orsini disse ai magistrati che, per la realizzazione di quelle bombe inusitate, che furono poi gettate sotto la carrozza, si era ispirato a un tipo particolare di ordigni, che egli stesso aveva visto a Bruxelles: aveva cioè copiato le bombe che avevano preparato in Belgio, nel 1854, alcuni emigrati politici francesi che intendevano uccidere con gli esplosivi lo stesso Napoleone III. Il tirannicidio era stato sventato, e i modelli delle bombe facevano orgogliosa mostra di sé nella “sezione criminale di un museo”. Insomma, pare quasi che all’assassinio dell’auto-intronato imperatore si debba arrivare per gradi, per “staffetta”, perfezionando i dati acquisiti come in un esperimento scientifico; e che i “ricercatori” ritenessero indispensabile, in barba a tutte le spie, e a tutte le polizie, di realizzare “esattamente” lo stesso tipo di attentato. Resta solo da stupirsi che poi quel tiranno dei Francesi sia morto nel suo letto.
Ma ancora più stupefacente è che il di Rudio, uno dei suoi attentatori del 1858, sia morto nel proprio, in California, a novecento già inoltrato. Il Conte (si veda in proposito l’ottimo libro che Cesare Marino gli ha dedicato, Dal Piave a Little Bighorn), sfuggito alla ghigliottina, ma condannato al carcere a vita in quanto “patricida” nella più terribile delle colonie penali, riuscì a evadere dalla Cayenna, raggiunse gli Stati Uniti, si arruolò nelle truppe di Custer e scampò miracolosamente all’eccidio nel quale il generale perse la vita.
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[in copertina: L’anarchico, di Sascha Schneider (1894)]