Ho orrore delle guerre. Non c’è n’è una, scatenata per motivi anche giusti, che non sia sfociata in barbarie, che non abbia sparso fiumi di sangue innocente. Non appena si accende un conflitto, ogni arbitrio diventa possibile. Non è che io non stimi i militari, considerati, singolarmente, come persone. Tutt’altro. Essi sanno bene, però, che non appena cominciano a ragionare, rischiano l’insubordinazione.
I- Honoré Bonet, priore trecentesco di Salon, nel suo trattato L’arbre des batailles, si interroga su quesiti pertinenti al bon ton dei militari in caso di guerra, cercando risposte persino nella Bibbia e nel diritto canonico. Vi compaiono dilemmi come questi:
“Se nella mischia si perde un’armatura presa a prestito, si è tenuti a restituirla?
È permesso dar battaglia in giorno festivo?
È meglio battersi dopo i pasti o a digiuno?”.
In nessun modo, per contrastare l’accusa anche solo “formale” di codardia e fellonia, un guerriero poteva indietreggiare, se era in tenuta d’armi.
« “I cavalieri dell’Ordine della Stella debbono giurare che in battaglia non indietreggeranno più di quattro tiri d’arco, altrimenti moriranno o si arrenderanno”, denuncia De Rougemont. Strana regola che secondo Froissart “è subito costata la vita, non appena costituito l’ordine, a più di ottanta cavalieri” ».
La norma di non mostrar mai le Terga al Nemico valeva anche per i re. Enrico V di Inghilterra, nel 1415, sorpassato per errore, al buio, il villaggio che gli era stato assegnato per i suoi alloggiamenti, si guardò bene dal tornare indietro: mantenne la cotta e l’armatura di guerra e trascorse una scomoda notte esattamente là dove l’oscurità l’aveva sorpreso.
II- L’osservanza, nelle epoche più antiche, di questi fatali puntigli di Etichetta Bellica, suscitava lo stupore del napoleonico Stendhal (vedi i “Frammenti” de L’Amore):
“C’è una bella differenza tra i soldati del ‘96 che vincono venti battaglie in un anno, spesso senza scarpe né vestiti, e i brillanti reggimenti di Fontenoy, che togliendosi il cappello dicevano gentilmente agli inglesi: Signori, tirate per primi”.
Ma la storia prosegue, secondo me, così: gli inglesi fanno fuoco e con la prima scarica centrano gli aristocratici. Allora uno di loro, barcollando, indica la fanteria (e le regole del gioco): “dicevo, prego, non su di noi… sopra i proletari…”.
III- Nella guerra scatenata contro brasiliani e argentini dal controverso dittatore del Paraguay, il mariscal Francisco Lopez, si distinse la battaglia di Curupaity (22 settembre 1866), una delle poche vinte dai paraguayani. Alla fine dei combattimenti, le forze di Lopez avevano perso appena cinquanta uomini, provocando novemila vittime tra l’esercito avverso.
“Ricevendo l’ordine di ritirarsi, gli argentini vollero mostrare tutto il loro disprezzo per i nemici allontanandosi marciando all’indietro piuttosto che voltarsi”.
L’odio tra i due schieramenti era profondo. Riferisce lo storico Regan: la propaganda sosteneva che “i paraguayani gettavano gli argentini feriti o uccisi in una laguna perché venissero mangiati dai coccodrilli”.
IV- George Orwell, nel suo diario della guerra di Spagna, racconta questo. Un soldato fascista corre via dalla propria trincea per portare un messaggio alle linee nemiche. Orwell, da buon cecchino, lo punta: può ucciderlo facilmente, ma si arresta di colpo. Si accorge che l’uomo corre, ma tenendo a fatica, con le mani, i calzoni, che ogni tanto gli scivolano giù. Il messaggero gli passa davanti, scappa. Un uomo che perde i pantaloni è un proprio simile, commenta Orwell, e non si ha voglia di sparargli. È possibile che si trattasse invece d’un astuto piano del fascista? D’un volontario “tomar calzas de Villadiego”, come direbbe l’anonimo autore della Celestina?
[in copertina: Vanitas, di Evert Collier (1669)]